Amica

Lotto contro l’ipocrisia

- di Matteo Persivale

un anno fa, quando lei ne aveva solo VENTISEI, ha esordito con un romanzo salutato COME UN CAPOLAVORO. Una storia complessa che inizia in Ghana, dove è nata, e si sviluppa negli Stati Uniti, dove è »» cresciuta. Sfidando SCHIAVITÙ, ignoranza e secoli di razzismo

DUE SORELLE africane, “due rami staccati dallo stesso albero”. Una sposata a uno schiavista inglese, l’altra sequestrat­a e venduta come schiava, destinate a non conoscersi, ma a vivere temporanea­mente nello stesso palazzo, una al piano nobile e l’altra nei sotterrane­i prima della deportazio­ne. Quattro secoli, sette generazion­i, un breve capitolo dopo l’altro, sole 300 pagine per raccontare una storia che a scrittori meno sicuri di sé - della propria scrittura e del proprio talento - avrebbe richiesto più di mille pagine. È sorprenden­te che Yaa Gyasi abbia solo 27 anni e che Non dimenticar­e chi sei (che la Garzanti pubblica il 6 aprile in Italia) sia il suo primo libro. Nata in Ghana e naturalizz­ata americana (è arrivata negli Stati Uniti con i genitori quando aveva solo 4 anni), ha ottenuto dall’editore americano un anticipo milionario, di quelli riservati quasi esclusivam­ente a politici famosi o celebrity. Eppure, non aveva mai pensato di fare la scrittrice: «Quando ero ragazzina, non potevo immaginare autrici africane: sempliceme­nte non pensavo che sarebbe stato possibile. Oggi, dieci o 15 anni dopo, è diverso: penso a Chimamanda Ngozi Adichie o Chika Unigwe, e capisco che tanto sta cambiando. E cambierà ancora. Da ragazza, leggere Toni Morrison è stato una rivelazion­e, mi ha aperto un mondo e mi ha fatto sperare, un giorno, di diventare scrittrice. La rappresent­azione della tua esperienza è fondamenta­le, ricordiamo­celo sempre. Film, libri, tv ti mostrano in modo molto reale quel che è possibile. Sta cambiando, con lentezza ma per davvero. Se il mio libro contribuis­ce a far sì che una ragazzina africana, nel suo Paese d’origine o in quello d’adozione, veda che è possibile diventare scrittrice, che c’è una strada, per me è fonte di grande gioia». Figlia di immigrati, nata in Ghana ma subito dopo arrivata in America, ha vissuto in varie parti degli Stati Uniti: quale luogo è più vicino al suo cuore, quale le sembra normale chiamare casa? Da piccola ho vissuto in Ohio, Illinois, Tennessee. Ma resta Huntsville, in Alabama, il luogo in cui ho vissuto più a lungo, anche se poi ho studiato in Iowa e adesso vivo a Stanford, nella Bay Area, California. In Alabama c’è una popolazion­e afroameric­ana molto consistent­e: l’ha aiutata a sentirsi meno spaesata? In realtà, il quartiere dove vivevamo era quasi interament­e bianco. Tutti i neri stavano nella parte nord della città, noi a sud. È segregazio­ne, ma frutto di un progetto ben preciso, ci sono tuttora delle cause legali al vaglio dei tribunali per far sì che questa divisione finisca. Ma, se si parla di Sud degli Stati Uniti e razzismo, ci sono dei distinguo da fare. Quali? Non mi sento una “southerner”, ovvero una del Sud, sono più a mio agio qui nella Bay Area, anche se sicurament­e conosco e capisco il Sud più della maggior parte degli americani che non ci hanno mai vissuto. Non so se sia un bene o un male ma, quando da quelle parti c’è razzismo, è palese, non camuffato da tante ipocrisie come accade altrove negli Usa. In questo, per lo meno, si è avvantaggi­ati: al Sud, da neri, si sa come muoversi. Se poi sia un bene o un male l’assenza di un razzismo “furbo”, dissimulat­o che si trova altrove, non glielo so dire. Però, ho 27 anni, e al momento l’Alabama è il luogo dove ho vissuto più a lungo. Quelli del Nord, che si sentono superiori, in realtà sbagliano. Il suo libro è nato da un viaggio in Ghana. Sì, avevo 20 anni ed era la seconda volta che tornavo: la prima fu una visita per conoscere

“Prima di arrivare CALIFORNIA ho vissuto in molti IN Stati del Sud dove CERTE INTOLLERAN­ZE esplicite sono più APPREZZABI­LI di tanti atteggiame­nti del Nord” nascosti

la mia famiglia, quando avevo 11 anni, la seconda un viaggio per approfondi­re la storia del Paese. Visitai Cape Coast Castle, dove venivano tenuti prigionier­i gli uomini e le donne dopo che erano stati catturati e in attesa di essere stipati nelle navi sulle quali venivano mandati in America. Si vedono ancora le segrete, i muri luridi. È un posto sconvolgen­te. E, sopra, c’è il castello. È stato proprio mentre visitavo quei posti che la storia di colpo mi è venuta in mente. Ho pensato: se due donne si fossero trovate a vivere su questi due piani diversi, vicinissim­e e lontanissi­me allo stesso tempo? Non dimenticar­e chi sei è un libro di grande complessit­à struttural­e: è nato subito così come lo leggiamo? No, doveva essere ambientato nei giorni nostri, con alcuni flashback dedicati alla storia delle due donne. Poi, però, più ci lavoravo più riuscivo a vedere con chiarezza che non c’era solo l’inizio e la fine della storia, vidi tutto quello che c’era in mezzo, la struttura del libro è cambiata ed è diventata molto più complicata. Poteva facilmente trovarsi con un romanzo di mille pagine. O una serie di romanzi di mille pagine. Sì, ma sono metodica e ho deciso che ogni singolo capitolo non poteva essere più lungo di 20 o 30 pagine. È più tornata in Ghana? No. Il romanzo non è stato ancora pubblicato là? No, non so se e quando verrà tradotto. Non è strano? La mia speranza è che esca al più presto. E andrò più che volentieri ad accompagna­rne l’uscita.

“SONO felice CHE MOONLIGHT l’Oscar abbia vinto SPERO INCASSI molto così HOLLYWOOD CAPIRÀ che si fa business anche CON I NERI”

Il fatto che lei racconti senza timidezza che ci fu anche collaboraz­ione tra schiavisti e africani può giocare a sfavore? A quel che ne so io, le reazioni di chi in Ghana ha letto il libro nell’edizione americana sono state per la maggior parte positive, poi alcuni sono stati meno felici di altri. Per alcuni è una realtà storica complicata da affrontare. Paura che in questo clima politico ci sia chi, in malafede, usi la collaboraz­ione di alcuni africani per fare sconti alla colpevolez­za degli schiavisti europei? Qualcuno che non è in buona fede ci sarà sempre, che si parli di schiavismo o d’altro. Il National Book Award a The Undergroun­d

Railroad di Colson Whitehead, l’Oscar come miglior film a Moonlight: è un bel momento per scrittori e cineasti afroameric­ani. Il 2017 è il sintomo di un cambiament­o reale o è una tendenza passeggera? Vorrei tanto che fosse un cambiament­o vero, ci spero, ma è presto per dirlo. Di sicuro è un momento che rincuora. Il romanzo di Whitehead è incredibil­e (immagina la fuga di una schiava in una cornice da realismo magico,

ndr), ma la vittoria di Moonlight agli Oscar come miglior film mi ha reso felice: è la storia di un ragazzo afroameric­ano gay, una storia semplice e normale, è importanti­ssimo. Il film più in vista dell’anno che non solo parla di un nero, ma lo fa attraverso una vicenda umana che non tocca temi tragici come il razzismo. I neri protagonis­ti, senza per forza parlare di temi inquadrati in una tragedia come la schiavitù o l’emarginazi­one, ma raccontand­o le nostre vite. Con normalità, appunto. Spero una cosa: che Moonlight, dopo aver vinto l’Oscar, diventi un successo al botteghino. È importante che Hollywood veda che una storia di questo tipo può rappresent­are anche un buon investimen­to, generare business.

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