Giorgio Strehler è stato il regista d’opera più grande. Seguito da Chéreau. Tra i più giovani Carsen e Michieletto
Così hanno votato 50 esperti musicali internazionali fra cui Wilson e Castellucci, Domingo e Antonacci
Una giuria di cinquanta personalità musicali internazionali. E un verdetto che unisce: Giorgio Strehler è stato il metteur en scène d’opera più grande. Seguito da Chéreau. Tra i più giovani Carsen e Michieletto. Così hanno votato Wilson e Castellucci, Domingo e Antonacci. E l’allestimento decorativo va in pensione
Giorgio Strehler e Patrice Chéreau sono i più grandi registi d’opera di tutti i tempi; Robert Carsen e Damiano Michieletto i più interessanti fra quelli oggi in attività: è questo il risultato di un referendum di “Classic Voice” che ha coinvolto una giuria di circa cinquanta artisti d’opera e addetti ai lavori, scelti tra registi, direttori artistici o sovrintendenti, cantanti e critici musicali di varie nazionalità. Uno sguardo autenticamente europeo. Le domande proposte erano tre: quali sono i più grandi registi d’opera di sempre; quali i più interessanti oggi in attività; e quali gli spettacoli da non dimenticare. Naturalmente, per quanto le personalità intervistate siano tutte di levatura internazionale, è chiaro che l’esito di questa indagine non deve essere letto come un dogma. Siamo pure consapevoli che in campo artistico le graduatorie rappresentano sempre una piccola forzatura. Però, qualcosa dicono. E anche in questo caso si può tentare di trarne un senso.
Dunque, Strehler e Chéreau, con l’italiano davanti per un solo voto, fanno il vuoto tra i grandi di ogni tempo. Alle loro spalle, ma a una certa distanza, seguono in fila indiana Jean-Pierre Ponnelle, Wieland Wagner e Luchino Visconti. Anche un innovatore come Walter Felsenstein è distanziato e Ruth Berghaus è preceduta da Luca Ronconi e Franco Zeffirelli. Forse non è azzardato ipotizzare che la scuola latina sia al momento più apprezzata dagli addetti ai lavori di quella continentale (e anglosassone): la prima portata più a raccontare con semplicità e aderenza al libretto, senza rinunciare alla bellezza visiva e pur non trascurando l’introspezione dei personaggi, la seconda volta a una lettura analitico/concettuale e caratterizzata da una maggior libertà di ricreare e ambientare. Tendenza che sembrerebbe trovare conferma nella graduatoria dei più apprezzati registi in attività, dove Carsen e Michieletto lasciano dietro Calixto Bieito, Richard Jones e Dmitri Tcherniakov, ma sopratutto Christoph Marthaler e Claus Guth. Si afferma però senza equivoci pure un’idea creativa e autoriale della messa in scena operistica: non c’è spazio, nel voto espresso, per illusioni pseudo-filologiche, ripristini nostalgici o per il confinamento della dimensione visiva a pura decorazione. Strehler e Chéreau sono senza dubbio rappresentanti di un “teatro di regia” che ha conquistato uno spazio autonomo di manovra, importante e prestigioso, accanto a quello del compositore e del direttore d’orchestra. Interpreti veri, non ripetitori o decoratori, sono anche i registi di oggi più apprezzati, che continuano nel contesto contemporaneo quella eredità.
I registi incoronano Felsenstein, i critici Chéreau
Interessante confrontare le classifiche generali con quelle parziali, come si direbbe nel linguaggio sportivo. Limitando l’attenzione al voto espresso dai registi, Walter Felsenstein è in testa con Chéreau e Ponnelle davanti a Strehler e Wieland Wagner. Ancora più netta la differenza con il voto di tutti gli italiani (non soltanto registi) che vede Strehler nettamente in testa e Ronconi al secondo posto. Tutti i voti ottenuti da Ronconi sono italiani. Un po’ il contrario di Zeffirelli, che in assoluto ha lo stesso numero di preferenze, ma raccoglie consensi soprattutto all’estero. Ci sono poi le preferenze dei critici
(di ogni Paese): per loro Chéreau sarebbe al primo posto davanti a
Wieland Wagner.
Sul successo di
Strehler, insomma, è determinante l’apporto nazionale.
Per quanto riguarda i registi più interessanti di oggi, i voti degli italiani e quelli dei critici ricalcano quelli complessivi:
Carsen al primo posto seguito da
Michieletto (con
Tcherniakov alla pari per i critici). Invece i registi fanno altre scelte: davanti a tutti c’è Richard Jones e poi Calixto Bieito. Carsen è soltanto terzo appaiato a Guth, e Michieletto scivola ancora più in basso con altri cinque colleghi (fra questi anche Castellucci).
Qualche dichiarazione di voto può aiutare a capire le diverse scelte. Strehler? “Insuperabile talento, straordinario nelle prove con i cantanti. E sempre nei suoi spettacoli quella cifra estetica di grande eleganza, magia e mistero” (Leo Muscato). Chéreau? “Il maestro della musica in teatro. Rendeva magico tutto quello che toccava” (Paul Curran). Wieland Wagner? “Ha introdotto la filosofia nella drammaturgia, riuscendo nell’impossibile intento di denazificare Wagner subito dopo la guerra” (Elvio Giudici). Felsenstein? “È stato il primo a far recitare i cantanti” (Alessandro Talevi). Carsen? “Un vero uomo di teatro” (Curran). Michieletto? “Lo voto ma con riserva. Il Ballo di Milano non funzionava” (Del Monaco).
Scelte difficili
Sven-Eric Bechtolf, regista e direttore artistico del Festival di Salisburgo, spiega perché non si sente di stare al gioco: “Come si fa a dire chi è stato il più grande? Non c’è un dvd del Flauto magico con la regia di Schikaneder, il quale era un genio. Lo era certamente anche Lully e pure Wagner doveva essere un regista interessante, ma non so se era il più grande. E non si dovrebbero dimenticare Wieland Wagner, Ponnelle, Zeffirelli, Robert Wilson…”. Gli fa eco Kasper Holten, direttore del londinese Covent Garden e pure lui regista: “Non ha senso indicare un regista come il più grande. Ognuno lavora in un proprio contesto sociale, politico e culturale. Io posso dire di essere stato influenzato da Harry Kupfer, quando ero giovane, e poi da Peter Konwitschny”. Emma Dante si giustifica: “Sono poco melomane per poter rispondere. Posso dire che amo molto il lavoro che Castellucci fa sulla regia d’opera perché lo amo molto nella prosa dove lo conosco meglio. Così come apprezzo Carsen, Martone, Deborah Warner, Vick…”. Daniele Abbado si limita a citare l’Elektra di Chéreau e il Guglielmo Tell di Graham Vick: due titoli esemplificativi per due maestri che stima molto.
Passate alla storia
Ai nostri giurati abbiamo chiesto di segnalare le produzioni che sono entrate nella storia. Tante le indicazioni (potete scorrerne i titoli nella tabella relativa) e due soli spettacoli che si siano staccati su tutti gli altri per numero di preferenze: il Ring di Chéreau/Boulez presentato a Bayreuth nel 1976, davanti alla storica Bohème di Zeffirelli che dopo mezzo secolo sopravvive a Milano e a Vienna. A questo proposito è interessante l’annotazione di Wilhelm Sinkovicz, critico musicale di “Die Presse”: “Quando l’allestimento scenico diventa più importante della musica c’è qualcosa che non funziona. L’eccellenza di una produzione è data dalla perfetta combinazione tra valori musicali e valori teatrali. Non serve un grande regista se non ci sono anche un grande direttore e grandi cantanti. Per esempio, è un peccato andare a Monaco a sentire uno dei più grandi direttori di oggi, Kirill Petrenko, dirigere spettacoli curati da registi di serie B che soltanto certi miei colleghi tedeschi considerano importanti. Del resto, registi che fossero fedeli al libretto come Petrenko lo è alla partitura non passerebbero mai al vaglio di certa critica. Allo stesso modo, il sensazionale Così fan tutte realizzato da Haneke non mi interessa se è diretto da un musicista modesto, come è stato. Considero la Bohème di Zeffirelli, che ancora si vede a Vienna, il più grande spettacolo realizzato qui, ma sul podio c’era Karajan. E comunque, nel dubbio, io preferisco sempre un’opera diretta da un grande direttore e con grandi cantanti, piuttosto che lo spettacolo di un grande regista ma con un cast modesto”.
Servire la musica?
Allargando questo discorso, vengono a galla molte perplessità sulla strada che un certo tipo di regia ha intrapreso negli ultimi anni. “Oggi la regia d’opera consiste, nella maggior parte dei casi, in una dislocazione diversa del racconto e della drammaturgia”, dice Federico Tiezzi. “Non sono interessato a questo modello di lavoro”. Leo Muscato è sostanzialmente d’accordo: “Negli ultimi decenni il teatro di regia ha fatto più danni che altro. Che cosa fare, oggi? Come leggere l’opera che ti hanno chiesto
di allestire, per cercare di restituire allo spettatore il valore che quei testi avevano quando erano stati creati? E come realizzare i tuoi pensieri e le tue idee, tenendo conto che, mediamente, i mezzi economici e i tempi a disposizione sono un decimo rispetto a vent’anni fa? Questi sono i problemi”.
Raina Kabaivanska ha un diavolo per capello: “Molte delle cose che si vedono oggi nei teatri proprio non le digerisco. L’opera dovrebbe portarci per qualche ora in un mondo diverso dalla realtà, invece certi registi ci propinano drogati, clochard, ubriachi soltanto per ricreare quello che abbiamo davanti tutti i giorni. Che operazione estetica pretende di essere? Che senso ha cambiare le epoche, trasformando Otello in un ufficiale di marina dei nostri giorni? E che cosa c’entra con Rossini un Guglielmo Tell con pugni chiusi e bandiera rossa? Così si vuole distruggere l’opera”. Si associa Michele Pertusi: “A me è sempre piaciuta l’opera in cui una spada è una spada, un trono è un trono e non una poltrona per massaggi, e dove le esigenze del canto sono considerate prioritarie. Oggi ci sono anche bravi giovani con belle idee, ma refrattari a capire le dinamiche e le esigenze storiche dell’opera. Tendono a servirsi della musica più che a servirla”. È sempre così? Jean-Jacques Nattiez, eminente musicologo canadese, nelle pagine successive sostiene che l’infedeltà (alle intenzioni d’autore, alla tradizione, ecc.) a volte è necessaria e perfino feconda… Una lancia a favore del nuovo la spezza infatti Mauro Meli: “Credo che la regia d’opera sia in continua evoluzione e possa comunque arrivare a risultati strabilianti. Adesso le nuove tecnologie, le proiezioni, le possibilità date dalla illuminotecnica consentono spettacoli davvero avveniristici: penso anche e soprattutto ai bellissimi e grandiosi allestimenti di Robert Lepage o de La Fura dels Baus”. Per Giancarlo Del Monaco c’è un prima e un dopo. Quando aveva vent’anni si era trasferito in Germania per imparare. “Allora quello era davvero il nuovo. Ma oggi il pubblico tedesco non è per niente appagato da certi spettacoli. Giusto cancellare le convenzioni, ma le tradizioni vanno rinnovate e non sradicate. Il guaio è che molti registi di oggi non hanno conoscenza di quello che è stato fat-
to prima. Qualche tempo fa a Monaco ho assistito a una Manon Lescaut in cui gli artisti del coro erano tutti rivestiti di pneumatici come tanti omini Michelin. Il regista mi ha chiesto che cosa ne pensavo e io gli ho dovuto rispondere che non avevo capito. ‘Ma non è importante capire’, ha ribattuto lui. È vero che Brecht ci ha insegnato che il teatro non sempre deve farci capire tutto. Ma alludeva al teatro del mistero, al teatro che fa pensare, non a un teatro senza senso”.
Otto Schenck, regista storico della scena viennese, 130 titoli realizzati alcuni dei quali sono ancora in repertorio, conclude la rassegna delle opinioni spiegando il suo punto di vista: “Nell’opera m’interessa l’umanità dei personaggi: vedere quello che succede e perché succede. Oggi vado poco volentieri a teatro. Certe cose mi piacciono, altre meno. Ma una cosa va detta, e riguarda tutti: chiedendo scusa per l’espressione, in teatro il pericolo di fare merda è sempre molto grande”. In chiusura ci regala un prezioso aneddoto, lui che ha collaborato con i più grandi direttori: “Ho avuto il privilegio di assistere al Simone diretto da Claudio Abbado al fianco di Carlos Kleiber, e al Tristano diretto da Kleiber al fianco di Abbado, raccogliendo le confidenze dei due. Dopo il Tristano, Claudio mi disse: ‘Adesso non potrei dirigere quest’opera, dopo aver sentito lui’. E dopo il Simone, Carlos in estasi: ‘ Io questo non lo saprei fare’. Che grandi artisti e che fortuna aver potuto lavorare con loro! Allora sì era una gioia fare il regista”.