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Dopo 18 mesi di restauri l’Opéra Comique, quintessenza dell’Opera francese, è pronta a ripartire E fra gli orientamenti di Mantei l’Italia è presente con una “prima” del pisano Filidei prevista nel 2018
Dalla centralinista al direttore, tutti fremono nei locali provvisori della rue du Sentier a qualche centinaia di metri dalla sede storica della place Favart nel secondo arrondissement. Per lasciare spazio ai lavori anche gli uffici, storicamente incastrati nell’edificio, si sono dovuti spostare. E diciotto mesi di chiusura sono lunghi, tanto che ora all’Opéra Comique c’è fretta di riaprire i battenti. “Ouverture” è la parola d’ordine. Si apre, anzi si salpa per un nuovo viaggio. Il più antico teatro d’opera francese tra quelli ancora in attività, subito dopo l’Opéra si rifà il look. È vero che di lifting ne ha subiti due soltanto negli ultimi anni: il primo sotto la direzione di Jérôme Deschamps e ora un secondo, tuttora in corso, con il nuovo direttore Olivier Mantei. E proprio mentre il teatro è ancora chiuso in attesa di aprire la nuova stagione, prima il 12 febbraio con Fantasio di Offenbach eccezionalmente ospitato dal Théâtre du Châtelet - altro teatro parigino che chiuderà presto i battenti per un lungo restauro - e poi il 16 marzo nella sede storica con una prima assoluta ( La princesse Légère di Violeta Cruz), girovaghiamo tra calcinacci e scatoloni in compagnia del direttore Mantei. Una visita eccezionale che è l’occasione per tornare sulla storia passata e recente di questa istituzione che ha sempre dovuto barcamenarsi tra divieti e vessazioni di ogni
tipo, permettendole di trovare un’identità inconfondibile. Non a caso, con l’appellazione “opéra-comique” s’intende tanto il teatro quanto il genere rappresentato: insomma l’uno e l’altro appaiono, sin dalle origini, indissolubili e unici. Come dire, non c’è l’uno senza l’altro. Una storia tricentenaria di un teatro che oggi conta 80 dipendenti, un budget annuale di 20 milioni di euro (nel 2014, prima della chiusura erano 16,5) e che prevede di aprire al pubblico almeno 130 giorni l’anno passando da 7 a 10 mesi di attività.
Ritracciare il passato dell’Opéra-Comique può aiutare a capire il presente. È di fatti dai suoi primi passi che questo teatro ha dovuto ritagliarsi un duplice spazio: un luogo e un genere da occupare. Se la data di nascita ufficiale dell’Académie royale de musique (poi nota con l’appellazione usuale di “Opéra”) è fissata al 1669, l’Opéra Comique è stata fondata nel 1714. Quarantacinque anni separano dunque la costituzione dei due teatri lirici parigini e il secondogenito deve adattarsi al primogenito, sicuramente più potente e spesso prepotente. Non a caso, è proprio in virtù delle pressioni dell’Académie royale de musique che all’Opéra-Comique, con tanto di decreto reale, vengono imposti alcuni limiti che finiranno per definire il perimetro del genere rappresentato: più che il soggetto che spesso di “comico” non ha nulla, sono due assenze a caratterizzare il repertorio che va in scena all’OpéraComique, dalle cui opere sono banditi sia i balletti sia i recitativi, perché gli uni e gli altri sono appannaggio dell’Opéra. Dal divieto di far ricorso ai recitativi,scaturirà l’inserzione di dialoghi parlati che ancora si ritrovano nella Carmen del 1875. Dopo un esordio nelle fiere, l’istituzione prende radici stabili. E a nobilitare il genere è soprattutto nel 1743 l’arrivo del librettista Charles-Simon Favart, che resterà una figura tutelare del nuovo genere, tanto che ancora oggi gli sono dedicati tanto l’edificio quanto la piazza che lo ospita. In realtà, di “salles Favart” se ne contano tre: la prima risale al 1783, inaugurata in presenza di Maria-Antonietta, avida consumatrice di musica; l’ultima, tuttora funzionante, al 1898. Ma anche in tempi recenti le difficoltà non sono mancate. Per esempio, in pochi sanno che la mitica produzione dell’Atys di Lully nel 1987 con la direzione di William Christie e la regia di JeanMarie Villégier – punto di partenza della Renaissance dell’opera barocca – è stata certo ospitata dall’OpéraComique, ma quando il teatro era di fatto una dépendance dell’Opéra e solo nel 1990 ritrovò la sua perfetta autonomia. E di chiudere definitivamente un teatro che, a dispetto di una storia gloriosa, rischiava di apparire pleonastico, si è parlato ancora agli albori del nuovo millennio. Poi arriva il miracolo. Prende le redini Jérôme Deschamps, che ridà all’istituzione la sua unicità. L’idea è ambiziosa eppure semplice: fissare di nuovo un perimetro che renda la missione dell’Opéra-Comique indispensabile e dunque non rimpiazzabile. I paletti sono chiaramente fissati: il repertorio francese specie comico, ma non solo (l’ennesimo Barbiere di Siviglia no, ma Le comte Ory sì, anche se la “prima” fu accolta dall’Opéra, e poi certo Hérold, Auber, Offenbach, ma anche Berlioz e Debussy), le opere sei-settecentesche soprattutto se si tratta di riscoperte caldeggiate dal movimento dei “baroqueux” (dopo una nuova produzione di Atys, sono di recente tornate in scena Platée di Rameau o autentiche rarità come Les fêtes vénitiennes di André Campra) ed infine l’apertura verso la produzione contemporanea in Francia lautamente sostenuta dallo Stato. Insomma, nessun rischio di chiusura una volta per tutte? “L’Opéra-Comique ha salvato la testa. Non corre più pericoli grazie alla sua indipendenza: Jérôme Deschamps e io abbiamo definito l’identità del teatro”, risponde il direttore Mantei. Che non è per niente inquieto per i lavori. Anzi. “Innanzi tutto avremo un teatro più bello. Abbiamo cambiato il sistema di ventilazione, sostituito la moquette e apportato tante modifiche: per esempio, i lampadari più inaccessibili avevano tante luci inutilizzate… La nuova sala brillerà! Quando il pubblico rientrerà all’Opéra-Comique vedrà e sentirà il risultato dei lavori…”. Insomma, si direbbe che assumere la direzione di un teatro costretto, pur momentaneamente, a chiudere i battenti non sia affatto una fonte di frustrazione per Mantei. “Al contrario, ogni teatro dovrebbe chiudere per
un certo tempo ogni dieci o al massimo quindici anni. È l’occasione di restaurare un edificio che si logora, ma anche di ripensare la strategia e soprattutto il rapporto con il pubblico. Nel 1981 l’età media degli spettatori d’opera era di 36 anni, oggi di 70. Per questo abbiamo inventato alcune strategie come “l’operakaraoke” o l’opera nelle aziende: abbiamo fatto cantare persone che non andavano mai all’opera e che dunque pensavano che la lirica non fosse per loro. Si erano auto-escluse. Il problema non è il costo del biglietto, ma d’inibizione”. Questo è anche uno dei paradossi più incredibili della gestione di Mantei: un’équipe era al lavoro per fare vivere un teatro chiuso. È per esempio in questo periodo che è nata l’idea di creare il dolce dell’Opéra-Comique: con una
prima selezione del pubblico che ha votato via Internet e con l’avallo di un gruppo di cantanti, tra cui Sabine Devieilhe et Stéphane Degout, è nato “Le Favart”, concepito dai pasticcieri della celebre ditta Le Nôtre. Buffo, ma anche in materia di calorie le rivalità (storiche) tra l’Opéra-Comique e l’Opéra, che aveva già il suo dolce, riaffiorano. Tra l’altro, mentre Palais Garnier per guadagnare qualche posto in più abbatte pareti scatenando un putiferio con petizione al seguito, la sala Favart rinuncia invece a una cinquantina di poltrone in nome del benessere del pubblico.
E la competizione tra le due istituzioni non si ferma certo qui. La regia di Fantasio è stata affidata al nuovo enfant prodige del teatro francese Thomas Jolly che ha pure firmato all’inizio della stagione Eliogabalo di Cavalli a Palais Garnier. “Gli ho proposto io di fare la regia di un’opera diciotto mesi prima di Stephane Lissner”, puntualizza Mantei che proprio dal teatro di parola vuole attingere idee e energie per dare un nuovo volto all’opera, che la vuole più intelligibile perché uno strato più ampio della società se ne possa sentire coinvolto. Manager lucido, Mantei pare avere le idee chiare su come difendere la specificità del marchio di fabbrica dell’Opéra-Comique. E conta pure molto sulla troupe dei cantanti con cui vuole tentare sistemi di prove lunghe sul modello teatrale che il direttore ha ben conosciuto a Théâtres des Bouffes-du-Nord a contatto con Peter Brook. Tra gli orientamenti da dare all ’OpéraComique, per certi versi quintessenza della cultura francese, l’Italia non è del tutto assente: al compositore pisano Francesco Filidei è stata commissionata una nuova opera la cui “prima” è prevista nel 2018 e un titolo perduto, La guerra amorosa, di Luigi Rossi tornerà in scena nel 2019 sotto la direzione di Raphaël Pichon, nuovo astro del barocco francese.
Non sembra essersi dimenticato di nessuno l’Opéra-Comique della nuova era.