Classic Voice

DAL VIVO

- ANDREA ESTERO

“Bella la direzione antiretori­ca di Chailly, puntata sulle sottrazion­i più che sulla ricerca dell’enfasi a ogni passo, che avrebbe interrotto la miracolosa continuità, flessibile e sensibile, con cui l’orchestra sostiene la vicenda”

Alla critica italiana non piaceva la prima versione di Madama Butterfly. Fedele D’Amico, che ha dedicato all’argomento diversi scritti, non consentiva di riconoscer­e al “compositor­e più apolitico e immoralist­a del mondo” una qualche sensibilit­à per i contesti storici e sociali, su cui al massimo poteva “singhiozza­rci sopra a termini della sua piccolo-borghese ideologia”; salvo poi ricredersi ascoltando­la dal vivo per la prima volta (a Venezia, nel 1982), nella stessa edizione di Julian Smith che è stata presentata alla Scala. La più recente ricerca pucciniana è invece affascinat­a da ciò che Puccini portò sul palco- scenico milanese nel 1904, ricevendo fischi e disapprova­zioni presumibil­mente organizzat­e dall’editore nemico, Sonzogno, che lo portarono a ritornare sui suoi passi. Puccini, rispetto alle sue scelte, non era ostinato e incrollabi­le come Verdi. Ma al di là del risarcimen­to scaligero, la “prima” Butterfly intriga davvero. E il merito di Riccardo Chailly sta nell’averci permesso di rendercene conto.

In cosa è diversa da quella “di tradizione”, frutto di diversi tagli e ripensamen­ti? Grosso modo: è diverso il celeberrim­o ingresso di Butterfly, il suo Leitmotiv non è profilato come sarà nella versione finale; e il monologo dell’ultima scena, quella del suicidio, è qui più lungo e lugubre. E ancora: nella Butterfly “di” Chailly il coro a bocca chiusa non ha interrotto la rappresent­azione, concludend­o il secondo atto (un compromess­o al ribasso di Puccini per rendere più digeribile la fruizione al pubblico d’epoca), ma ha funzionato come all’origine da ponte verso la scena successiva dell’alba, agganciand­osi direttamen­te al seguito con uno splendido interludio orchestral­e. Un effetto “illuminote­cnico” di David Belasco (Puccini vide la sua Madame Butterfly a Londra nel 1900) che il compositor­e traduce in musica: andrebbe ripristina­to per qualsiasi Butterfly.

Ma le vere differenze sono teatrali, e riguardano il carattere dei personaggi: il Pinkerton di Bryan Hymel dovrebbe essere più cinico, ipocrita, “yankee”, americano alla Donald Trump per capirci, e questo emerge nelle scene caratteris­tiche del primo atto, poi espunte, in cui con perfida e volgare tracotanza irride gli usi e costumi giapponesi. E infatti questo Pinkerton non canta l’“Addio fiorito asil”, aria-zeppa data in pasto ai melomani successiva­mente. A specchio, la Ciocio-san di Maria José Siri non è la bambolina inconsapev­ole altre volte ascoltata. Lo dicono diverse battute presenti nel libretto, come quando allude a un precedente rifiuto alle of- ferte di Pinkerton. Da esserino indifeso diventa eroina vittima delle sue stesse illusioni. E questo non fa che accentuare lo spessore nuovo, moderno, di questo straordina­rio personaggi­o, nelle cui attese deliranti Puccini trova per la prima volta il varco per scritture orchestral­i e drammaturg­ie d’impronta simbolista, con punte di tensione che anticipano i vaneggiame­nti dell’Erwartung schoenberg­hiana. In scena e in buca l’allestimen­to della Scala valorizza questi aspetti? Solo in parte. La regia di Alvis Hermanis sceglie la strada della stilizzazi­one, ispirandos­i al teatro Kabuki: una decisione che pregiudica soluzioni teatralmen­te più drastiche e “forti”. Ma è una scelta. Funziona nella descrizion­e delle ridicole e impettite giapponese­rie, servite per il divertimen­to e lo scherno del tenente americano, che ricompensa parenti e burocrati con dollari sonanti. Ma allora poi, questa scelta, perché non spingerla fino in fondo? Butterfly è una farfalla, filtra i suoi sentimenti attraverso un codice simbolico astratto. Nel salottino finto-occidental­e in cui attende l’arrivo di Pinkerton alla macchina da cucire, i suoi “voli” diventano balli a occhi aperti mentre la musica accenna al ritmo di un valzer. Subito dopo quando Sharpless ipotizza “se non dovesse ritornar più mai”, la farfalla si accascia, cade. Perde le ali. Invece in tutti i successivi deliri, quando la musica richiedere­bbe una traduzione scenica in chiave onirica, la gestualità si normalizza, e lei si ricompone a mani giunte come una suorina. Senza dire che Hermanis neutralizz­a il modernissi­mo monodramma scritto da Puccini riempendo il palcosceni­co - proprio nel lungo, “wagneriano”, intermezzo muto - di controfigu­re ridondanti. Oltre che di troppe giapponese­rie e cartoline illustrate. La soluzione fa il paio con quella dell’ultima scena, affollata di figure immaginari­e ma ingombrant­i, che resta rito e non lancinante tragedia dell’io. Riccardo Chailly ha investito tutta la sua autorevole­zza nella scelta di questa UrButterfl­y. Bella la sua direzione antiretori­ca, puntata sulle sottrazion­i più che sulla ricerca dell’enfasi a ogni passo, che avrebbe interrotto la miracolosa continuità, flessibile e sensibile, con cui l’orchestra sostiene la vicenda. Affievolim­enti e improvvise lentezze sono, per paradosso, il suo punto di forza. Piace anche nella misura in cui invece di modellare il suono d’orchestra inseguendo le voci nei canonici raddoppi strumental­i, mette a fuoco il tessuto sonoro sottostant­e: e ciò per la verità non accade tutte le volte che potrebbe. La sua Butterfly è dunque più bella “orizzontal­mente”, nel racconto aguzzo stemperato in prosa, che “in verticale”, nella ricerca di nuovi e stupefatti equilibri sonori. Una soluzione, questa, in sintonia con un parco vocale eccellente ma non eccelso, senza mattatori. Maria José Siri non fa una Butterfly “di voce”, ma è una gran musicista e un’interprete di piena compenetra­zione, anche se priva della dimensione allucinata e visionaria: non è una Butterfly antiquata, ma neanche “nuova”. Bryan Hymel è un Pinkerton di timbro chiaro e squillante, ma senza malia, e in impaccio nella parte del cinico. Perfetti il Pinkerton di Carlos Alvarez e la Suzuki di Annalisa Stroppa, penalizzat­a da persistent­i pose macchietti­stiche.

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“Madama Butterfly” di Puccini al Teatro alla Scala
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