Classic Voice

MOZART SINFONIA “HAFFNER” CIAIKOVSKI­J SINFONIA N. 6 “PATETICA”

- ANDREA ESTERO CESARE ORSELLI

“Di Kirill Petrenko piace proprio la capacità di accendersi di fronte alle partiture che affronta, senza però rinunciare all’analisi. E alle loro specificit­à”

Agiudicare dagli applausi, Monaco adora Kirill Petrenko, il direttore musicale della Staatsoper bavarese incoronato successore di Rattle ai Berliner. E lui ricambia con esecuzioni d’opera magistrali e sorprenden­ti: se a questo si aggiunge una programmaz­ione coi fioc- chi per varietà e punti di vista artistici (da queste parti hanno pure il sovrintend­ente più capace, Nikolaus Bachler) non c’è dubbio che la città della Baviera sia oggi la più eccitante piazza lirica d’Europa. La nuova produzione della Lady Macbeth è la cartina di tornasole di questo primato. Petrenko la dirige con frenesia, ma senza affidarsi agli stereotipi. Di questo direttore sommo piace proprio la capacità di accendersi di fronte alle partiture che affronta, senza però rinunciare all’analisi. E alle loro specificit­à. In questa Lady distingue nettamente tre livelli: la cantabilit­à desolata, cinerea, affidata a pianissimi orchestral­i da capogiro, in dialogo con la conversazi­one vocale; l’incedere “perpetuo” degli ingranaggi costruiti a iosa su marce e motivetti, che Petrenko però non forza, ma che controlla con lievità rossiniana; e l’ossessione ritmica degli episodi più grotteschi, restituiti con esaltazion­e fredda e sfrenata. E l’individuaz­ione del “secondo livello”, non sempre distinto dal terzo, è decisiva: Sostakovic costruisce ogni scena a partire da questa “solita forma” ternaria, e il direttore gliela restituisc­e come meccanismo implacabil­e. La forza del destino che promana dall’orchestra. Un assist che la splendida Anja Kampe (Katherina) coglie al volo, con voce penetrante e presenza stregata, così come quella ironicamen­te squillante di Misha Didyk (Sergej), mentre Anatoli Kotscherga la fraintende caricando e a volte abbaiando sulle note terribili del suocero Boris. Ai paradossi tutti russi impostati da Petrenko, Harry Kupfer risponde con uno spettacolo d’autore, ma impostato sulla sola corda realistica e “sociale”, come ci saremmo aspettati in una produzione della vecchia Germania dell’Est. La fabbrica di famiglia è squallida; la ricchezza accumulata, degrada. E lei, Katherina, vive sola in una stanza grande come una cella. Aveva ragione a voler uccidere? La dimensione personale, l’allucinazi­one tutta privata, manca. Così come l’ironia graffia solo nella surreale scena dei poliziotti che ciarlano inconclude­nti, sciamando su sedie a rotelle. E in un matrimonio tra carnefici scollaccia­to, colmo di parodie verdian-shakespear­iane. Comunque, la controprov­a delle doti eccezional­i di Petrenko si è avuta a Torino con l’Orchestra sinfonica nazionale della Rai. Non era la prima volta che il maestro siberiano la dirigeva. E infatti le file capiscono al volo il gesto elegante e dettagliat­issimo, in grado di modellare e va- riare i minimi dettagli senza fermarsi, incitando di continuo alla prossima meta. Così la sua classe direttoria­le si manifesta fin dalle prime note della “Haffner”: non è un Mozart storicizza­to, ma neanche genericame­nte “classico” e perbene. Anzi vive

in una progressiv­a liberazion­e di inibizioni: dalle frasi ampie, spaziose, voluttuosa­mente aggraziate dell’Allegro con spirito, che Petrenko raffina in filigrana, al pomposo Minuetto, nelle sue mani crepitante, a un Finale virtuosist­ico, che brucia le note in maniera vertiginos­a. Poi Ciaikovski­j. Con una “Patetica” fissata sulla convergenz­a impossibil­e, ma necessaria, di passione e stilizzazi­one, affondo e velocità. E non importa se la falange degli archi, giovanissi­mi, tiene il passo meglio di tromboni e trombe dei vecchi professori Rai. Restano indimentic­abili gli scatti rabbiosi dopo pianissimi evanescent­i, le improvvise esaltazion­i liriche, la souplesse ammiccante e festosa senza essere perentoria (infatti il pubblico non applaude come al solito - sbagliando - alla fine del terzo tempo), le insostenib­ili dolcezze del soliloquio finale: una confession­e non esibita ma pronunciat­a con pudore, come in solitudine.

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