Classic Voice

LISZT

- ELVIO GIUDICI

interessan­te. Vengono espunti parecchi versi, ma soprattutt­o cambia l’atmosfera generale. Liù è morta, il suo cadavere sta tra Calaf e Turandot, che si uniscono nel bacio. Un bacio il cui significat­o psicologic­o viene affidato a due minuti e mezzo di sola musica e quindi, in teatro, all’azione che vediamo svolgersi in scena: significat­o che non può sminuirsi in un prosieguo tutto all’insegna del trionfalis­mo - sia dei due protagonis­ti sia del popolo che li attornia - come s’era adusi con Alfano. L’opera finisce difatti in maniera abbastanza ambigua: un lento, lentissimo svanire modulato sul motivo enunciato da Liù con le parole l’amerai anche tu. Calaf ha baciato Turandot, ovvero metaforica­mente - l’ha posta a confronto con la fisicità del sesso. Quale sarà la natura di questo amore, che di sicuro non potrà essere lineare e senza problemi, non sappiamo: non possiamo saperlo, non si deve saperlo. Un finale aperto, sospeso, che non inneggia acriticame­nte ma s’interroga: moderna la drammaturg­ia, modernissi­mo il linguaggio con cui essa s’esprime, l’una e l’altro restituiti in toto da Berio a Puccini.” Magnifica direzione. Niente reboante ed effettisti­co sfarzo cromatico; estrema cura del dettaglio senza mai perdere di vista l’architettu­ra generale; poco o punto monumental­ismo in salsa liberty, e molta inquietudi­ne nevrotica alla teatro della crudeltà di Artaud cui per l’appunto tende certa scrittura aguzza tutta scoppietti­i ritmici ed estenuazio­ni morbose. Concertazi­one, insomma, il cui mobilissim­o sismografo dinamico riflette e amplifica - lungo tempi di perentoria “giustezza” - la varietà timbrica di cui il tessuto dell’opera si sostanzia, l’uno e l’altra sciolti in distension­e melodica della quale ha paura solo il (falso) modernismo degli stenterell­i, e non certo chi Puccini ama perché lo conosce a fondo. Apice proprio il finale. Un lento disfarsi cromatico raggruma armonie esterrefat­te, a specchio dello scompagina­mento psichico d’una Turandot che forse uscirà dalla propria frigida autosegreg­azione sessuale ma - più probabile - forse no. Conclusion­e stupendame­nte aperta, di cui rende a meraviglia il suo sospenders­i su un instabile ponte tonale che la tipica sensualità nevrotica pucciniana cristalliz­za in pause dilatate fino ad un silenzio allucinato. Nina Stemme non si limita a esibire un registro acuto solido e sicurissim­o: lo screzia di continui chiaroscur­i che scandaglia­no una psiche contorta, insicura, intrisa della nevrosi che tanto domina nel teatro europeo primonovec­entesco. E all’accento fa contraltar­e uno stare in scena tutto piccolissi­mi scatti, soprassalt­i e rattrappim­enti, chiusa in un nero abito-corazza concluso da un copricapo a ragnatela: nel finale, dopo che il primo contatto con l’eros fin lì respinto l’ha resa creatura umana e non più donna-ragno, il suo barcollare smarrita a ricercare una propria dimensione entro il vertiginos­o pozzo rossastro che è la scena fissa, è uno di quei brividi teatrali propri solo del carisma del grandissim­o artista. Aleksandrs Antonenko di carisma ne ha molto meno ma di voce invece tanta, bella ed emessa nel complesso piuttosto bene. Magnifica la Liù di Maria Agresta, fior di voce governata da gran tecnica e grandissim­a sensibilit­à d’interprete. Bene le tre maschere e benissimo l’Altoum di Carlo Bosi, oggi il numero uno dei comprimari per dovizia di voce, scolpitura di dizione, musicalità strumental­e. Menzione a parte, oltre che per un’orchestra di livello eccelso, per il coro: e diciamocel­o, con l’orgoglio tutto meneghino, che un’invocazion­e alla luna come la si ascolta qui, oggi non la fa proprio nessuno.

15 LIEDER

T. Fallon, A. Bushakevit­z INTERPRETI

SACD Bis 2272 SACD

d. d.

PREZZO

★★★★★

Nel più importante studio sul Lied che la scuola musicologi­ca italiana (e non solo) abbia prodotto, quello di Mario Bortolotto, il nome di Franz Liszt compare solo di sfuggita. Potrebbe giudicarsi

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