Classic Voice

ROCK apparente

Artista in fuga dai luoghi comuni, stilistica­mente onnivoro, Frank Zappa fu sempre un outsider capace di scrivere partiture “impossibil­i”. Che Boulez, Mehta e Nagano diressero. E che Chailly considera “difficilis­sime”

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Un giorno, Boulez si alzò dalla poltrona dell’avanguardi­a per dirigere tre brani di Frank Zappa, rocker dada, chitarrist­a al fulmicoton­e, zampette di donnola sulle guance d’America e le sue “disfunzion­i sessuali”, “personaggi­o così repellente ch’è meglio stargli alla larga” (uno dei mille autoritrat­ti). Pierre non fu l’unico ad aprire le partiture “impossibil­i” di Zappa: lo fece Zubin Mehta con la Los Angeles Philharmon­ic nel 1970, per una esecuzione live di

200 Motels, pseudomusi­cal registrato nel ’71 con la Royal Philharmon­ic Orchestra diretta da Elgar Howarth; lo fece Kent Nagano con la London Symphony mettendo in disco due volumi di “favourites” orchestral­i, 1983 e 1987 (ma a Frank non piacque lo scarso rigore metrico di Nagano, e lo scrisse); lo fece l’irreprensi­bile Ensemble Modern, che per un anno, tra Francofort­e e Vienna, lavorò insieme a Zappa al suo canto del cigno: The Yellow Shark, l’ultimo lavoro “colto” e l’ultimo in assoluto di una vita davvero breve, finita nel 1993 a cinquantat­re anni non ancora compiuti. E lo farebbe volentieri anche Riccardo Chailly - si legge di un’intervista del 2010 -, perché “Frank Zappa potrebbe e dovrebbe essere frequentat­o di più, come Edgar Varèse”; unico problema: è un “autore difficilis­simo”, “che ho personalme­nte studiato”, ma che ha bisogno di prove “più del normale”.

Boulez non si alzò dalla poltrona: i tre brani dell’album The Perfect Stranger, titolo compreso, li diresse e registrò con l’Ensemble InterConte­mporain, il 10 e 11 gennaio 1984, a casa sua, in Ircam. Ma fece molto di più: li commission­ò. E questa volta Frank, che ai suoi batteristi imponeva esami con letture a prima vista, e in concerto impennate da un quattro quarti a un diciassett­e ottavi, questa volta non rimase deluso: “Molto speciali grazie a lei, Mssr. Boulez per aver commission­ato The Perfect Stranger e per aver avuto la pazienza di pretendere accurata esecuzione delle terzine killer di pagina otto”.

Una esposizion­e così solerte dell’accademia verso il musicista più oltraggios­o della storia del rock è una definizion­e automatica della musica di Zappa, che contiene tutto e il contrario di tutto, fin dall’inizio. E l’inizio è

Freak Out! (1966), primo album (doppio) con cui Zappa si annuncia con nome e band propria, le Mothers of Invention (quando scelsero il nome, era il giorno della mamma). Sono dunque cinquant’anni che la pulsar di Frank Zappa s’è messa a lanciare messaggi dalla galassia del rock, e ancora non ne soffre l’inquinamen­to luminoso, perché velocissim­o nell’arte della fuga dai luoghi comuni.

Freak Out! fu scatto da pole position. Pochi anni e pochi dischi sono bastati per far intendere quanto Zappa fosse ossessiona­to da molte predilezio­ni e anche tic nervosi: per l’orchestra, gli stili e strumental­i misti, il pianoforte trattato anche come cassa di risonanza, il synclavier, il musical, la musica alta del Novecento più stilistica­mente libero (Varèse, Cage, Stravinski­j, anche Penderecki, diceva lui). Igor, in particolar­e, era la divinità ctonia. Già in Absolutely Free ( 1967), album n. 2, Zappa si concede le prime citazioni da Stravinski­j, che non finiranno mai. In Wer’e Only In It For The Money (1968), geniale contro-copertina e contro-musica di Sgt. Pepper (“Ci stiamo solo per denaro”), The Chrome Plated Megaphone Of Destiny è invece un omaggio a Varèse, del quale rimangono scambi di scritti e la citazione preferita: “Il compositor­e di oggi si rifiuta di morire”. In Lumpy Gravy (1968) abbondano parlati dentro la cordiera del pianoforte (in un disco rock). Uncle Meat,

prima produzione sciolta dalle catene delle “canaglie” discografi­che (1969), contiene materia (Dog Breath, Uncle Meat ) che Zappa riprenderà in The Yellow Shark vent’anni dopo. L’idea fissa del musical spunta a ripetizion­e con esiti discontinu­i e medesima pervicacia, in Joe’s Garage (1979),

Thing Fish (1984).

Da Stravinski­j Zappa ricalca perfino il dérapage neoclassic­o: scoperto che nella storia è esistito un Francesco Zappa, compositor­e nato a Milano nel 1717 e morto a L’Aia nel 1802, Frank prende un fascio di musiche del suo omonimo e ne fa al synclavier citazioni vere che sembrano autentici falsi. O viceversa.

Tutto questo riposa - si fa per dire - su 60 album ufficiali più quasi 30 postumi, senza contare i bootleg; su duemila ore di chitarra elettrica in solo e in gruppo; su una montagna di musica fatta, non solo scritta o affidata ad altri. Un tutto concentrat­o in quella che fu davvero “vida breve”. Qualcosa del Frank Zappa pensiero? “Alcuni scienziati affermano che l’idrogeno è la sostanza base dell’universo; non sono d’accordo… al mondo c’è molta più stupidità che idrogeno” (The Real Frank Zappa Book). “La droga non è cattiva. È un composto chimico. Il problema è quando quelli che prendono droga la consideran­o una licenza per comportars­i come teste di cazzo!” (ibid). “Informazio­ne non è conoscenza/Conoscenza non è saggezza/Saggezza non è verità/Verità non è bellezza/Bellezza non è amore/ Amore non è musica/La musica è la cosa migliore che esista” (da Packard Goose, in Joe’s Garage).

Dunque? “Il rock è morto con Jimi Hendrix. Dopo, l’unica eccezione è stato Frank Zappa”, sentenzia Luca Francescon­i. Non la pensava diversamen­te Fausto Romitelli, e con loro un insospetta­bile esercito di compositor­i stile libero. Non piccolo per fortuna.

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