WAGNER
TRISTAN UND ISOLDE
INTERPRETI A. Schager, R. Nicholls, J. Relyea, M. Breedt, B. Polegato DIRETTORE Daniele Gatti ORCHESTRA teatro dell’Opera di Roma
REGIA Pierre Audi REGIA VIDEO Annalisa Buttò DVD CMajor 752208 ★★★
Sta nella direzione, a mio parere, la ragion d’essere di questa registrazione. Orchestra (eccellente la sua qualità timbrica e tecnica) capace d’aprire un ventaglio straordinariamente ampio di dinamiche, spessori, agogiche. Orchestra che anziché dilagare sinfonicamente, “conversa” attraverso una sterminata gamma d’accenti tutti inquadrati entro un’implacabile, sfaccettatissima logica drammaturgica. Orchestra i cui turgori tardoromantici sono fatti avvertire ma subito stemperati in una sottile, nervosa inquietudine che diresti persino espressionista: cosa che restituisce pienamente alla scrittura wagneriana il ruolo di apripista sia verso certe Nachtmusik
mahleriane, sia verso i febbricitanti deliri dello Schoenberg di Erwartung. La tensione creata da questo perenne oscillogramma dinamico e agogico non ha un cedimento, trascina sempre in avanti, riesce a raccontare una non-azione conferendole intensità di tanto maggiore in quanto ottenuta scavando nel suono e profilandone al rasoio i contorni anziché liberando montate sonore ricche d’effetto ma inevitabilmente povere di sostanza. Di primo acchito, sembra che lo spettacolo sia in sintonia con tale elaboratissima concertazione: ma così non è.
Là dove l’orchestra scava e ricerca il senso, la scena dipinge e illustra, cadendo in quel manierismo che i suoni evitano sempre. Chiarissimo il modello-Wieland sia in una regia tutta costruita sulla luce, sia sull’impiego di oggetti scenici in funzione allegorica. Pannelli metallici per “fare nave” nel prim’atto. Ossario di balene nel secondo, a circondare un monolito nero: il quale (ben lontano dal geniale, stupendo blocco in stile Moore di Wieland) strizza l’occhio a Odissea nello spazio e nello svolgersi dell’incontro Tristan-Isolde - a fronte di un’orchestra capace del miracolo di creare un dialogo tra due astratte e alquanto verbose concezioni pseudo-filosofiche - si limita a scoperchiarsi rivelando uno scheletro d’acciaio, il cui significato ognuno può cercarselo da sé; tanto di tempo ce n’è, perché i due non stanno mai vicini e anzi si danno le spalle proprio nei momenti teoricamente più torridi (certo, certo: l’amore più completo lo si raggiunge nella morte…). Nel terzo, c’è un palco su cui sta Tristan
in teoria ferito ma privo di bende o quant’altro, a fronte d’una costruzione che regge una mummia invece bendatissima. L’astrazione riguarda anche i pur scarni oggetti narrativi: niente filtro bensì una liscia pietra che diverrà nel second’atto un inerte menhir, sorta di oggetto propiziatorio per Isolde; niente fiaccola spegnendo la quale si crea la Notte; niente spada per Melot (un Melot gobbo peggio di Rigoletto; saremo mica ancora al Lombroso con la teoria che il cattivo è anche brutto?), che ferisce a morte Tristan toccandolo con un bastone mentre Isolde lo tiene fermo, suppongo sempre per il fatto che la morte è l’acme dell’amore. Irresistibile tentazione pensare a re Lear: il niente dà niente…
Solo alla fine, dopo l’inerzia totale, c’è un risveglio d’azione: eccezion fatta per il baldo giovane re Marke e per Isolde (il Liebestod – forse l’apice della prodigiosa concertazione di Gatti, col suo lirismo asciutto e possente - la vede diventare nera silhouette contro un bianco abbacinante, idea della Trasfigurazione ripresa pari pari dallo spettacolo di Lehnhoff ad Aix nel 1973) gli altri, compreso un folto stuolo di armigeri e vassalli, si ammazzano tutti insieme appassionatamente.
Il cast schiera cantanti appena appena sufficienti, tutti attori men che modesti. Rachel Nicholls spara acuti un tantino bradi ma d’effetto, a fronte d’un registro centrale di carta velina e gravi fatti solo d’intenzioni; Andreas Schager sembra essere la nuova speranza per le parti tenorili wagneriane, destinate pertanto a udirsi da timbro bruttarello e arido, fraseggio monotono e capacità attoriali da palo telegrafico; John Relyea ha la voce più bella del cast ed è quello che canta meglio, sicché la tirata di Marke stavolta regge anche perché il carisma scenico traspare; Michelle Breedt passa senza grave infamia e nessuna lode particolare; Rainer Trost è un giovane marinaio parecchio agée di fisico ma soprattutto di voce, e il pastore Gregory Bonfatti non comunica neppure un terzo dell’allucinata disperazione effusa dal corno inglese di Andrea Tenaglia.