Verdi “morto” nel 1902. Quando un libro ufficiale mostra le incertezze dell’editoria
Verdi e Toscanini inseriti fra i protagonisti della vita letteraria della città per la loro attività epistolare. Ma nelle pagine che li riguardano abbondano errori e inesattezze. Troppi per un libro molto ambizioso
Nel VI secolo, sotto il dominio bizantino, Parma era chiamata Crisopoli, la città d’oro: probabilmente perché vi era custodito il tesoro dell’erario, anche se ai parmigiani è sempre piaciuto pensare che il riferimento fosse allo splendore della città. La città d’oro è il titolo scelto dallo scrittore Guido Conti per un ambizioso e ricco volume (Libreria Ticinum Editore), che si propone di celebrare i fasti letterari parmigiani dal 1200 al 2020, a partire da Salimbene de Adam, il più vivace cronista del medioevo, fino al poeta Attilio Bertolucci. Se ce ne occupiamo in questa sede è perché nell’ampia antologia sono compresi anche due musicisti pur lontanissimi da ogni velleità letteraria come Giuseppe Verdi e Arturo Toscanini, presi in considerazione per la loro intensa attività epistolare. C’è naturalmente un capitolo dedicato a Bruno Barilli e sorprende che sia invece completamente ignorato Ildebrando Pizzetti, saggista e critico di una certa importanza, oltre che compositore.
Ma torniamo a Verdi e a Toscanini. Non contesteremo all’autore l’arruolamento di
Verdi “tra i grandi scrittori della nostra terra, e non servono romanzi o favole per considerarlo tale” (p. 246): il suo entusiasmo sembra genuino, e poi siamo nel campo delle opinioni. Si può sorridere a espressioni come “sbotta quando la sua arte viene rovinata dagli stupidi” (p. 256), o restare perplessi leggendo che “nei teatri affollati dove in platea la gente stava in piedi senza strumenti di amplificazione, diventava talvolta difficile sentire perfino la voce dell’orchestra” (p. 249): dove una virgola malandrina sembra lamentare che il pubblico della platea non sia dotato di strumenti di amplificazione (quanto alla “voce dell’orchestra”, ancora oggi in un teatro riesce a farsi sentire tranquillamente senza amplificazione). Per costruire il ritratto letterario di Verdi, Conti cita una trentina di estratti dalle lettere del compositore. Non saremo così pedanti da contestargli alcuni errori di trascrizione, ma ci sembra imprudente definire Barezzi “il padre della sua ex moglie” (p.260): qualcuno potrebbe pensare che Verdi era separato o, chissà, di
vorziato; mentre era vedovo di Margherita, morta nel 1840 all’età di 26 anni. Va sicuramente corretta la data di morte del compositore: il 27 gennaio 1901 e non “agli inizi del nuovo secolo, nel 1902” (p. 263).
Conti definisce giustamente l’epistolario di Toscanini un ricchissimo giacimento per capire l’anima profonda dell’uomo e dell’artista. Ma purtroppo in queste pagine sono ancor più numerose le inesattezze che balzano all’occhio del lettore non del tutto inesperto. Eccone un florilegio, colto in una sola facciata (p. 292): quando debutta a Rio de Janeiro, Toscanini non ha 18 anni ma 19; è corretto dire che nel 1892 dirige la prima di Pagliacci, ma non la prima di Bohème (1896), non il Crepuscolo degli dei (1895), tra l’altro non in “prima rappresentazione italiana” (era stata a Venezia nel 1883) ma nel primo allestimento di una compagnia italiana; e nemmeno il Tristano (1897). Non è finita: ai funerali di Verdi (nel 1901 e non, ci risiamo, nel 1902) Toscanini non diresse “l’orchestra”, ma un coro di 900 persone e vari musicisti; non affiancò Mahler al Metropolitan di New York “dai primi anni del Novecento”, ma soltanto per la stagione 1908-1909 perché poi Mahler lasciò il teatro; non “diresse l’orchestra” al fronte ma una banda militare, come correttamente è scritto qualche riga sotto; e non “contro la politica della Germania”(?), ma per tenere alto il morale dei soldati opposti all’esercito austriaco, come è scritto qualche riga sopra; dopo l’aggressione di Bologna da parte dei fascisti nel 1931 non “se ne andò dall’Italia, ritornando solo dopo la liberazione”, semplicemente non diresse più nel suo (e nostro) paese che lasciò nel 1938. Quindi, “si ritirò definitivamente a New York” non nel 1937 ma dall’ottobre 1938; l’espressione “qui lavorò per la radio” sembra più appropriata per un impiegato che per un artista, anche se i suoi concerti con l’Orchestra della Nbc venivano trasmessi dall’emittente radiofonica. Per restare alle inesattezze cronologiche, Toscanini non restò in esilio “fino alla liberazione, nel 1945” (p. 302), ma tornò in Italia nell’aprile del 1946, poco prima di inaugurare la Scala ricostruita con un memorabile concerto.
Non vogliamo continuare a tediare il lettore con l’elenco degli errori di trascrizione delle lettere, che spesso rendono incomprensibile il testo (curiosa a p. 298 quella “Venere di Tannhäure” che è naturalmente la Venere del Tannhäuser) o ne alterano il significato; ma non si può sorvolare su una lettera dei primi di luglio del 1902 indirizzata a Rosina Storchio, la quale era rimasta incinta e aspettava un figlio da lui, che viene invece presentata come una risposta alla moglie Carla (p. 300). Non è per pignoleria che si vogliono fare queste puntualizzazioni. Tutti coloro che lavorano con la scrittura o nelle redazioni di giornali e di case editrici sanno quanto sia facile inciampare in errori di ogni genere e come i refusi si nascondano spesso alla vista dell’autore e dei revisori nel modo più subdolo. Il fatto è che l’elenco delle imprecisioni contenute nei due capitoli citati di questo volume oltrepassano ampiamente il limite di tolleranza. Per due motivi: il primo è che l’autore non è un dilettante, ma un professionista, autore di apprezzate opere di narrativa e saggistica, vincitore di premi, direttore di collane editoriali e insegnante di scrittura; il secondo è che il libro è stato stampato con il contributo del Comune di Parma, dell’Unione industriali e della più importante fondazione bancaria della città, e vede la luce nell’anno in cui Parma è capitale italiana della cultura. È un lavoro importante, di quasi 800 pagine, studiato con indubbia intelligenza e impaginato con un ricchissimo e raffinato apparato iconografico: un lavoro pensato per “restare”, a cui la prefazione dell’assessore alla Cultura conferisce una sorta di ufficialità cittadina. Perché allora tanta superficialità in quelle pagine su Verdi e Toscanini?
Il sospetto è che l’autore, uscendo dal campo di sua stretta pertinenza che è la letteratura, abbia considerato l’intrusione nel mondo dei musicisti come un momento di facile evasione. Controllare l’esattezza di certe informazioni è faticoso. Ne vale la pena? Chi si accorge di un eventuale errore? Chi legge davvero i libri che vengono pubblicati? Ci siamo abituati ad accettare acriticamente ogni cosa che ci venga propinata e la competenza non gode in questo momento di grande favore. Il discorso vale anche per la musica forte, al punto che ci si è docilmente rassegnati alle immancabili banalità di una coppia televisiva nazionalpopolare a margine dell’inaugurazione della Scala. Stavolta però con una consolazione: non c’era l’intervallo a dare spazio alle chiacchiere inutili.