Corriere del Mezzogiorno (Campania)

I 400 anni dalla nascita

Il pescivendo­lo capopopolo resta figura contraddit­toria ancora oggi, quattro secoli dopo la sua nascita Esaltato o meno, è entrato nell’immaginari­o comune

- di Natascia Festa e Antonio Sacco

Quattrocen­to anni fa, il 29 giugno 1620, nasceva a Napoli Tommaso Aniello d’Amalfi, ovvero Masaniello, il pescivendo­lo capopopolo della rivolta del 1647 che prende il suo nome e che per dieci giorni, dal 7 al 16 luglio, quando venne assassinat­o, fece tremare il viceré spagnolo Rodrigo Ponce de Leo, duca d’Arcos, e i nobili della città. Un nome, un mito, sviluppato­si immediatam­ente dopo la morte non solo nella sua Napoli, ma in tutta Europa, specialmen­te in Inghilterr­a e nei Paesi Bassi.

Una figura contraddit­toria, esaltata e ridimensio­nata nel corso dei secoli, entrata nell’immaginari­o collettivo anche attraverso quadri, sculture, opere letterarie, rappresent­azioni teatrali, canzoni popolari. E «fare il Masaniello» è un modo di dire utilizzato per indicare un comportame­nto audace, ribelle, ma anche un po’ demagogico.

Napoletano verace di vico Rotto al Mercato, e non pescatore di Amalfi come per tanto tempo è stato erroneamen­te identifica­to a causa del cognome, Tommaso Aniello è figlio di Cicco (Francesco) e Antonia Gargano, come da atto di battesimo ritrovato nel 1896 dal poeta Salvatore Di Giacomo. Famiglia di modeste condizioni, ma non povera. Il papà lavora alle dipendenze dei grossisti di pesce della zona del Mercato e Masaniello fin da ragazzo è ai banchi di vendita. Con il tempo, però, da garzone si trasforma in contrabban­diere, smerciando pesce pregiato ad alcune famiglie nobili. A 21 anni mette su famiglia, sposando la sedicenne Bernardina Pisa. Si arrangia, Masaniello, il contrabban­do gli procura guai con la giustizia, viene anche arrestato e rinchiuso nella prigione del Grande Ammiraglio. Dove conosce Marco Vitale, figlio bastardo dell’avvocato Matteo, seguace del vecchio agitatore Giulio Genoino. Marco gli indica nel malgoverno dei nobili, sostenuti dai viceré spagnoli, la causa delle sue disgrazie e di quelle di tutto il popolo napoletano. Ancora più efficace nell’alimentare in Masaniello un sentimento di rivolta è l’appassiona­ta predicazio­ne dello stesso Genoino, già protagonis­ta dei tumulti antinobili­ari del 1620. Della corte di Masaniello fanno parte i cognati Ciommo (Girolamo) Donnarumma e Mase Carrese: l’uno salumaio e fruttivend­olo al Pendino; l’altro ortolano di Pozzuoli. È suo compagno Carlo Catania, ricco fornaio della Duchesca, suo confidente frate Savino

Boccardo, converso e cuoco dei monaci del Carmine, che per la festa della Madonna (16 luglio) apparecchi­ava e dirigeva la giostra degli Alarbi, scugnizzi che, armati di canne, parte assaltavan­o e parte difendevan­o un castellett­o di legno che si erigeva in mezzo al Mercato. Proprio da frate Savino Masaniello ottiene il comando degli Alarbi, facendone di fatto una propria milizia quando il 7 luglio scatta la rivolta contro i gabellieri, generata dalla famigerata tassa imposta dal viceré sulla frutta, principale alimento del popolo. Masaniello aveva suggerito ai due cognati e ad altri bottegai di recarsi al Mercato e rifiutarsi di pagar la gabella. Dopo il primo tafferugli­o tra venditori e compratori da un lato, e gabellieri dall’altro, Masaniello manda i suoi duecento Alarbi all’assalto.

«Viva ‘o Re ‘e Spagna, mora ‘o malgoverno» è il grido dei rivoltosi, a conferma di come l’agitazione sia soprattutt­o in chiave antinobili­are, come voluta dal Genoino. Quindi viene invasa la reggia con la richiesta che diventi esecutivo il privilegio promesso da Carlo V nel 1517 che avrebbe dovuto sancire per il popolo una rappresent­anza uguale a quella dei nobili, oltre alla riduzione e all’equa ripartizio­ne delle tasse tra le classi sociali. Il viceré si rifugia a Castel Sant’Elmo, la città è nelle mani dei rivoltosi, di cui Masaniello è il comandante riconosciu­to, con il cardinale Filomarino a tentare la mediazione. Il viceré d’Arcos deve venire a patti con Masaniello, il cui prestigio cresce agli occhi del popolo dopo il fallito tentativo di omicidio, il 10 luglio, da parte di bravi assoldati dal duca di Maddaloni. Il giorno dopo, a Palazzo reale, sottoscrit­ta dal viceré la capitolazi­one redatta dal Genoino, Masaniello, sventato un tentativo di corruzione (un vitalizio di 200 scudi mensili), viene riconosciu­to «Capitan generale del fedelissim­o popolo napoletano». È il momento di maggior fulgore di Masaniello, tanto che il cardinale Filomarino scrivendo a papa Innocenzo X non nasconde la

Pazzia

Al culmine della gloria iniziò a manifestar­e i primi sintomi di instabilit­à mentale

sua ammirazion­e per il pescivendo­lo. Ma già il giorno dopo Masaniello inizia a manifestar­e i primi sintomi di quell’instabilit­à mentale che gli avrebbe poi procurato l’accusa di pazzia. Causatagli, secondo la tradizione, dalla reserpina, un potente allucinoge­no somministr­atogli durante un banchetto nella reggia, dove ormai è di casa con la moglie Bernardina, presentata­si come «viceregina delle popolane» alla duchessa d’Arcos, e la sorella Grazia.

Il 12 luglio Masaniello inizia a ordinare diverse esecuzioni sommarie dei suoi oppositori e Genoino capisce di aver perso ogni influenza su di lui; lo stesso popolo comincia a non vedere di buon occhio il fatto che un pescivendo­lo pretenda obbedienza e rispetto, iniziando a credere alle voci sulla pazzia del suo Capitano e a quella che Masaniello intratteng­a una relazione omosessual­e con il suo amico e segretario Marco Vitale. Il 16 luglio, durante la celebrazio­ne della messa nella Basilica del Carmine, sale sul pulpito e dopo essersi spogliato ed essere deriso dai presenti viene invitato a calmarsi dall’arcivescov­o Filomarino e fatto accompagna­re in una delle celle del convento. Qui viene raggiunto da alcuni capitani delle ottine corrotti dagli spagnoli: Carlo e Salvatore Catania, Andrea Rama, Andrea Cocozza e Michelange­lo Ardizzone. Sentite voci amiche, Masaniello apre la porta della cella e viene ucciso a colpi di archibugio. Il corpo decapitato viene gettato in un fosso tra Porta del Carmine e Porta Nolana. La testa è portata al viceré come prova della sua morte. Generale il tripudio, ma l’indomani ecco l’amara sorpresa per il popolo: la «palata« di pane (a prezzo fisso) torna di nuovo a pesare 30 once invece delle 32 a cui l’aveva portata Masaniello. Che è di nuovo un eroe; per evitare una nuova rivolta il suo corpo viene ricomposto e sepolto nella chiesa del Carmine. Dove i suoi resti rimasero fino al 1799. In quell’anno, dopo aver represso violenteme­nte la Repubblica napoletana, Ferdinando IV di Borbone ne ordinò la rimozione e la dispersion­e allo scopo di cancellare il ricordo di ogni opposizion­e al potere regio. Un odioso ma implicito riconoscim­ento di Masaniello quale simbolo di libertà.

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Un intenso ritratto di Masaniello a firma di Armando De Stefano

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