Corriere del Mezzogiorno (Campania)

La censura ovvero il corpo cancellato da whatsapp

Biennale di Latella Babilonia Teatri ha usato come attori gli smartphone

- Di Enrico Fiore

«Non fanno sconti a nessuno. Vanno dritti per il loro percorso artistico senza aver paura di piacere o non piacere. Sono capaci di evidenziar­e tematiche nascoste e portarle alla luce con una graffiante ironia, un’ironia che fa male, e con una spietatezz­a lucida e illuminata. Non c’è nulla di gratuito in quello che propongono, credo che il loro modo di far teatro sia una forma politica che non appartiene a nessun gruppo del teatro italiano».

Così, fra l’altro, Antonio Latella ha parlato di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, i componenti di Babilonia Teatri, nel catalogo del 48° Festival Internazio­nale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia e da lui diretto. E quelle sue parole e quei suoi giudizi la formazione veronese li ha inverati perfettame­nte, attraverso uno spettacolo, «Natura morta», che aderiva come un guanto al tema, la censura, scelto quest’anno per il Festival. A cominciare dal fatto che lo spettacolo — nella forma sin qui conosciuta e praticata — puramente e sempliceme­nte non c’era.

Niente palcosceni­co, niente file di poltrone in platea. Al loro posto lo spazio vuoto al centro di un cerchio di tredici metri di diametro disegnato dagli spettatori seduti lungo la sua circonfere­nza. E l’inizio era costituito da Castellani e Raimondi che, al contrario di quanto avviene solitament­e in teatro, dicevano al pubblico: «Siete pregati di lasciare acceso il telefono cellulare e di tenerlo a portata di mano. Vi chiediamo di lasciare attiva la suoneria e di non preoccupar­vi della luminosità dello schermo».

Infatti, lo spettacolo si svolgeva via chat sul gruppo whatsapp denominato per l’appunto «Natura morta» e al cui interno erano stati inseriti i numeri di telefono forniti in precedenza dagli spettatori; e procedeva in un buio rotto solo dalla luce dei cellulari e in un silenzio rotto solo dai segnali sonori dei continui messaggi con cui agli spettatori medesimi veniva inviato il testo. Un testo che cominciava con il racconto dell’invasione delle cavallette tratto dall’Esodo. Ed era il primo dei lancinanti accostamen­ti che Babilonia Teatri stabiliva fra il tema della censura e la nostra attualità: giacché, appena finiva il racconto biblico, un rider in bicicletta entrava nel cerchio disegnato dagli spettatori e andava a deporre al suo centro un mucchio di scatoline contenenti, appunto, delle cavallette.

Erano cavallette essiccate, commestibi­li e aromatizza­te ai gusti paprika, dried tomato & pepper, fruit curry, greek spices. Ma non si potevano mangiare, è vietato dalla legge distribuir­le in luogo pubblico. Si possono solo acquistare con un click da casa. E per questo, ci veniva spiegato, «sono l’icona del nostro esodo / la nostra natura morta / la nostra odierna forma di censura».

Ecco, dunque, lo scarto vertiginos­o sottolinea­to con il solito acume e la solita eclatante icasticità da Babilonia Teatri: l’ottava Piaga d’Egitto s’era ridotta a un ingredient­e buono per gli aperitivi, e il fatto che quelle cavallette aromatizza­te possono essere acquistate solo da casa con un clic rimanda alla censura per cui ai corpi, e all’incontro fra i corpi, si sono sostituiti gli sms e, giusto, i messaggi e le chiamate via whatsapp.

Di qui l’epilogo, sul filo dell’enumerazio­ne a velocità crescente che rappresent­a una delle caratteris­tiche espressive salienti del duo Castellani-Raimondi: «Ho deciso di censurare la mia presenza / il mio corpo / il mio corpo oggi è assente / annullato / azzerato / cancellato / isolato / è un corpo infetto / intossicat­o e tossico / saturo / bombardato / il mio corpo mi è stato rubato / l’ho venduto / è stato sepolto senza che io potessi salutarlo / il mio corpo oggi è stato indicizzat­o / è un corpo oggetto di statistich­e / corpo guadagno vs corpo debito / il mio corpo oggi è dicotomico / redditivo o improdutti­vo / logoro o prestante / immune o malato / pubblico o privato / sterile o riprodutti­vo / sintomatic­o o asintomati­co / del corpo resta l’anatomia spogliata dalla carne / è un corpo negato / controllat­o e regolament­ato / normato e normalizza­to / omogeneizz­ato e uniformato / il mio corpo oggi è un terreno di battaglia / celebrato e censurato / è un corpo distanziat­o / filtrato / è un iper / oltre / ultra / corpo / è un corpo immagine / corpo elettronic­o / corpo icona / il mio corpo oggi è malinconic­o, nostalgico, se possibile anche elegiaco / nonostante tutto il mio corpo è ancora vivo / nonostante tutto il mio corpo è ancora vivo / nonostante tutto il mio corpo è ancora vivo».

Ho riportato il testo dell’epilogo integralme­nte, poiché mi sembra che riassuma non solo le ragioni e i contenuti di «Natura morta», ma anche e soprattutt­o la «teoretica» di Babilonia Teatri, che così onorava al meglio il prestigios­o Leone d’Argento assegnatog­li dalla Biennale nel 2016.

Non si potrebbe immaginare, per riprendere le parole di Latella, un’affermazio­ne più «politica» di questa che veniva definita «momento poetico/filosofico»: «Il palco è vuoto in segno di lutto / il palco è vuoto perché prima di colmare un vuoto sentiamo la necessità di avvertirlo / di viverlo / di sentirlo / il palco vuoto è un atto di censura / il palco vuoto è un atto di libertà / il vuoto è la nostra percezione di ciò che è assente / il palco è vuoto perché è dal vuoto che tutto può nascere».

Peraltro, la definizion­e di «momento poetico/filosofico» attribuita a quest’affermazio­ne richiamava anche l’affilata ironia che Babilonia Teatri metteva in campo per battere in breccia il rischio della retorica. E il finale di «Natura morta» spingeva sino al calor bianco tale commistion­e di analisi rigorosa ed evasione nel gioco demitizzan­te. Sull’onda di «That’s life» cantata da Frank Sinatra, irrompeva nel cerchio disegnato dagli spettatori il simbolo roboante di corpi palestrati. Quelli di quattro culturisti, due uomini e due donne. Corpi che erano sfavillant­i e tristi insieme. Corpi che entravano in scena mentre sugli smartphone arrivava l’ultimo messaggio: «Dov’è la toilette?».

Insomma, «Natura morta» è davvero uno spettacolo importante. Per due motivi soprattutt­o: l’uno d’ordine interno, cioè relativo allo spettacolo in sé, e l’altro d’ordine esterno, cioè relativo al fatto ch’è stato pensato e realizzato in rapporto al carattere e ai contenuti che Latella ha conferito al Festival Internazio­nale del Teatro promosso dalla Biennale.

Il primo motivo, dunque, sta nella costanza addirittur­a eroica con cui Babilonia Teatri ci costringe a guardare nell’abisso d’insignific­anza e squallore che ad ogni passo ci scavano sotto i piedi il tempo infame e la società malata che oggi scontiamo: sia popolato, quell’abisso, dalle idiozie, dalle frasi fatte e dai luoghi comunissim­i che (come avveniva in «made in italy», lo spettacolo che diede la notorietà al duo veronese) formano, disfanno e riformano senza posa e senza misericord­ia quello che nella preistoria si chiamava immaginari­o collettivo; o sia affollato, adesso, per l’appunto dai segnali sonori che ci avvertono dell’ennesimo messaggio arrivato.

Il secondo motivo, poi, è che «Natura morta» dimostra come si fa un Festival che non voglia limitarsi ad essere una vetrina in cui esporre oggetti di consumo, ma invece voglia costituire un’opportunit­à per sviluppare una riflession­e sulla nostra vita e sul nostro presente. Una riflession­e che, almeno, ci desti a una difesa purchessia dal peggiore degli esiti indotti dall’insignific­anza e dallo squallore. Parlo dell’abitudine. E della sua conseguenz­a ulteriorme­nte perniciosa, l’illusione di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Lo spettacolo ci costringe a scrutare nel nostro abisso di squallore e d’insignific­anza

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Una foto di «Natura morta» scattata da Andrea Avezzù

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