Corriere del Mezzogiorno (Campania)
Trovai la Regione «chiusa»
Ricordo con emozione quei giorni. Ero consigliere regionale del Pci. Mi trovavo in auto, in piazza Medaglie d’Oro, al Vomero. Vidi e sentii contemporaneamente. Avvertii di colpo che la «500» slittava spinta da una forza enorme; la gente correva in tante direzioni. Napoli impazziva. La notizia della tragedia arrivò subito. Un volo a casa per una via di fuga per la famiglia. Il portiere dello stabile, di Bagnoli Irpino, aveva già saputo. Sconvolto, mi chiese subito: «La Regione che fa ?». Una corsa verso Santa Lucia: la Regione era latitante.
Portone chiuso. I «vertici» lontani dalla gente. Rabbia e vergogna. Ad ore dal disastro il «palazzo» aveva ancora le luci spente e il portone sprangato. L’immagine penosa della realtà mi è ancora dentro. È l’altro polo della energia totale che in quello ore e poi in quei primi drammatici giorni, migliaia di giovani, donne, uomini, volontari singoli e di tante associazioni, riuscirono a sprigionare organizzando i primi e più immediati soccorsi. Colonne dalla Campania e dalle altre Regioni, dei sindacati, della Caritas, di associazioni e di altri enti, insieme con vigili del fuoco e Croce rossa, con mezzi di ogni tipo, cercavano di penetrare nelle valli, di arrampicarsi sui paese-presepi cancellati insieme alle comunità. Fu la salvezza, il conforto, la sopravvivenza per i superstiti, soprattutto per anziani, feriti e bambini. Lo Stato era assente. L’Esercito, gli ospedali da campo, le cucine militari, i prefetti e le cosiddette «autorità» vennero dopo giorni . Una verità dolorosa e impressionante che portò Pertini all’anatema: vergognatevi! Il terremoto mostrò al Paese alcuni aspetti dell’«Osso del Mezzogiorno» che in parte, tuttora sussistono, emblematiche del sottosviluppo: la carenza di strutture civili e sociali, a partire dalla Sanità; il degrado del sistema abitativo; la carenza di infrastrutture ( strade, scuole, energia, comunicazioni); lo spopolamento e la economia della sussistenza. Colpì anche altre città ma evidenziò anche i problemi acuti di Napoli, urbanistici, sociali, abitativi.Venne anche confermato il cliché nazionale con l’indelebile Dna: il dopo catastrofe, da sempre, con qualsiasi governo, è sempre uguale a se stesso. Prima la latitanza dei poteri, la disorganizzazione, i conflitti di una cancerosa burocrazia, progetti faraonici quanto disarticolati. Tutto è e si risolve con due magiche obsolete invenzioni: «Emergenza» e «Commissari Straordinari»; fuori le regole, dentro autorità monocratiche e, di conseguenza, prassi operative che postulano la eliminazione di ogni controllo sulla spesa in nome di un efficientismo che resta sulla carta. Così per il Belice, così per la Campania e Basilicata, così, purtroppo,«ancora oggi con le alluvioni come per i terremoti dell’Aquila, dell’Alto Lazio, delle Marche, dell’Umbria.
La stessa complessa macchina legislativa nazionale e regionale sulla quale venne avviata la «Ricostruzione», fece emergere un primo nodo esemplificativo della «qualità politica» del Mezzogiorno: le pressioni feroci per l’inserimento dei Comuni nelle fasce più alte che assicuravano maggiori risorse. Si decise, finalmente, di «isolare» una prima fascia: il «cratere», cioè i Comuni praticamente rasi al suolo. Poi gli altri. Un altro punto nodale fu la Legge 219: il punto critico era connettere la ricostruzione abitativa e delle strutture pubbliche e sociali con il futuro, con lo sviluppo. L’art. 32 era lo snodo politico-istituzionale-economico e sociale. Tra «aree costiere» e «zone interne» poteva essere delineato uno sviluppo non solo «napolicentrico» ma una osmosi sinergica di grande valenza intersettoriale e interterritoriale, puntando prioritariamente sulle eccezionali risorse endogene dell’osso. Si potevano sollecitare con misure ad hoc di politica industriale, la Confindustria come le politiche sociali per investimenti produttivi ad alta tecnologia, innovativi e connessi anche alle potenzialità territoriali. Lo scontro fu durissimo tra linee contrapposte: l’industria in montagna nelle varie aree o «poli integrati» nelle piane di riferimento. Prevalsero la linea sbagliata del localismo e del centralismo: scelte operate dal governo e sostenute dalla Regione Campania. Tipologia di industria, ubicazione e finanziamenti erano decisi in proprio dal Commissario e, dunque, dal governo.
I risultati sono noti. Poche le industrie valide che ancora oggi svettano nel mercato globale e assicurano sviluppo e occupazione; troppe le scatole vuote, pezzi di industrie obsolete, scarti produttivi già fuori mercato, chiusure e fallimenti a catena. Un fiume di risorse bruciato. Ancora una straordinaria occasione perduta per il Mezzogiorno.
Un parziale risultato positivo si è avuto con le infrastrutture delle quali, comunque, le aree interne avevano assoluto bisogno: la Fondo Valle Sele, l’Ofantina e le altre bretelle, connettono ora in pochi minuti la Salerno-Reggio Calabria con Lioni, Calitri, Melfi, la Basilicata e la Puglia. La assoluta esigenza e valenza di queste opere purtroppo si accomuna ai guasti profondi e devastanti della Tangentopoli legata agli appalti: una sconfitta della politica e per il sistema Paese, reale ma strumentalizzata dalla Lega per montare la campagna anti-meridionalista e separatista e subita da una sinistra culturale e politica subalterna al berlusconismo.
Il negativo che pure c’è stato, tuttavia non può offuscare tutto il positivo della ricostruzione civile e abitativa ormai pressoché ultimata grazie in primo luogo, all’impegno duro dei sindaci e degli amministratori locali. Quaranta anni sono troppi ma, per tutti i governi e di tutti i colori, sono solo una tappa del lungo viaggio da qui alla eternità che segna la storia delle ricostruzioni in Italia. Ora per il Sud può aprirsi una fase nuova con il Piano Mezzogiorno e con i Fondi europei. Il terremoto 1980 può finalmente coniugarsi allo sviluppo.