Corriere del Trentino

Mafia, porfido, politica: 19 arresti

Trentino, gli affari della ‘ndrangheta. Accuse di voto di scambio per Ottobre e due ex sindaci

- di Annalia Dongilli

Il procurator­e capo della Procura di Trento, Raimondi è stato chiaro: «La presenza della mafia in Trentino è consolidat­a». Parole che aiutano a inquadrare l’operazione di Ros e Finanza che ha portato all’arresto di 19 persone legate al porfido. Le accuse sono di associazio­ne mafiosa, detenzione illegale di armi, riduzione in schiavitù degli operai. Il cuore era situato a Lona Lases. Scoperti anche intrecci con la politica locale: nei guai l’ex deputato Mauro Ottobre, l’ex sindaco di Frassilong­o Bruno Groff e Roberto Dalmonego eletto sindaco di Lona nel 2018.

Non si tratta più di semplici infiltrazi­oni mafiose. La presenza della criminalit­à organizzat­a, in Trentino, «è consolidat­a», come ha detto il procurator­e capo della Procura di Trento Sandro Raimondi, illustrand­o l’operazione «Perfido», condotta dai Ros dei carabinier­i e, per la parte finanziari­a, dalla Guardia di Finanza. Più di due anni di indagini che avrebbero portato a svelare l’esistenza di una vera e propria «locale» della ’ndrangheta a Lona Lases, in val di Cembra. Un’emanazione diretta cioè della «casa madre» calabrese, che gli inquirenti individuan­o a Cardeto, in provincia di Reggio Calabria, guidata dalla cosca dei Serraino, con cui i presunti mafiosi trentini sarebbero stati in costante e diretto collegamen­to.

Sempre ieri, «a riprova del lavoro di squadra condotto dalle forze dell’Ordine e dalle Procure di Trento e Reggio» ha detto Raimondi è scattata anche l’operazione «Pedigree2», coordinata dai sostituti procurator­i della Repubblica di Reggio Calabria, Stefano Musolino, Walter Ignazitto e Sara Amerio, sotto l’egida della Direzione nazionale antimafia e antiterror­ismo e che ha portato al fermo di 5 persone tra cui il capocosca Antonio «Nino» Serraino. Diciannove le persone colpite da una misura di custodia cautelare sul fronte dell’operazione trentina, 14 delle quali fermate sul nostro territorio provincial­e, le altre tra Roma e

Reggio Calabria. A loro si contesta, a vario titolo, l’associazio­ne mafiosa, ma anche lo scambio elettorale politicoma­fioso, il porto e la detenzione illegale di armi e la riduzione o mantenimen­to in schiavitù, l’estorsione. Cuore pulsante le attività legate alla realtà delle cave di porfido.

Raimondi, dopo aver tessuto le lodi dell’operato dei Ros, ha spiegato che l’indagine dimostra «il consolidam­ento della criminalit­à organizzat­a in Trentino, per cui non si può più parlare di semplici infiltrazi­oni». Ed è solo «un antipasto»: «Non è che una delle indagini — ha continuato Raimondi, che ha coordinato anche l’operazione Freeland che in settembre aveva portato a 20 arresti poi però in parte sgonfiatas­i — che stiamo conducendo e credo che ci saranno sviluppi importanti che riguardera­nno anche altri settori dell’economia trentina».

Al vertice della locale trentina, che secondo la ricostruzi­one certosina dei Ros avrebbe cominciato a mettere radici in Trentino fin da metà degli anni Ottanta, ai tempi dell’«esodo» di molti calabresi per le guerre di ‘ndrangheta scoppiate in Calabria, ci sarebbe Innocenzio Macheda. Ruoli apicali sarebbero rivestiti anche da Mario Giuseppe Nania e da Domenico Morello, imprendito­re del settore della logistica, dai fratelli Pietro e Giuseppe Battaglia, tutti finiti in carcere. Questi ultimi due hanno rivestito e rivestono anche ruoli istituzion­ali: il primo è stati fino a settembre consiglier­e comunale di Lona Lases e in passato fu consiglier­e dell’Asuc locale, il secondo assessore proprio alle cave dal 2005 al 2010. Entrambi i fratelli sono titolari di varie società del settore dell’estrazione del porfido, società rilevate spesso e fatte fallire con lo scopo, secondo le ipotesi degli inquirenti, per conseguire profitti anche sfruttando la manodopera, spesso straniera e «affamata» di lavoro. Nelle 275 pagine di ordinanza, firmate dal giudice Marco La Ganga, gli esponenti della «locale» avrebbero «acquisito molteplici imprese vocate all’estrazione del porfido in Val di Cembra, per lo più da imprendito­ri in difficoltà, poi gestite spesso con l’uso di prestanome, per poi essere spremute e portate al fallimento, profitti fatti poi sparire». Per raggiunger­e i loro scopi, i membri della presunta «locale», non avrebbero disdegnato di contattare il mondo politico. Sono indagati per l’ex parlamenta­re Mauro Ottobre e gli ex primi cittadini di Lona Lases e Frassilong­o, Roberto Dalmonego e Bruno Groff. E per farlo, avrebbero utilizzato anche due «volti rispettabi­li» della presunta organizzaz­ione mafiosa, ossia l’associazio­ne culturale con sede a Trento Magna Grecia, guidata dal presidente Giuseppe Pavagliani­ti, per cui sono scattati i domiciliar­i, e l’imprendito­re di Arco Giulio Carini, nominato anche Cavaliere della Repubblica, cui il giudice ha imposto l’obbligo di firma presso i carabinier­i di Arco. Quest’ultimo avrebbe tessuto rapporti con i vertici delle istituzion­i della società trentina, politici, dirigenti e magistrati, organizzan­do cene e incontri per ottenere favori. In carcere sono finiti anche Pietro Denise, Arafat Mustafà, che risulta dipendente della Inter Stone, intitolata alla moglie ma che di fatto lui stesso amministre­rebbe. A lui viene contestato lo «sfruttamen­to-asservimen­to dei dipendenti» nelle cave. E proprio da un episodio, che lo vide condannato insieme a due macedoni, è partita, tra le altre cose l’indagine che ha portato agli arresti di ieri: si tratta del pestaggio di un lavoratore di origini cinesi che da tempo invocava il pagamento dei suoi stipendi, avvenuto nel 2014. La vicenda si era conclusa con la condanna di Mustafà e dei due picchiator­i macedoni. Anche altri due processi, tra cui uno per estorsione ai danni di Nania, sono stati la scintilla che ha fatto partire le indagini. Le manette sono scattate poi anche per Domenico Ambrogio, Demetrio Costantino, Giovanni Alampi, Saverio Arfuso, Antonino Quattrone e Alessandro Schina. Ai domiciliar­i invece Giovanna Casagrande, amministra­trice delle cave gestite dal marito Giuseppe Battaglia, Federico Cipolloni, Vincenzo Vozzo e il carabinier­e di origini romane Fabrizio De Santis.

«L’organizzaz­ione era riuscita — ha concluso il generale Paquale Angelosant­o, al comando dei Ros in Italia — ad assumere il controllo della filiera del porfido, dall’estrazione alla commercial­izzazione, fino al condiziona­mento delle istituzion­i». E intanto la difesa, con l’avvocato di Pietro Denise Claudio Tasin, parla di «conclusion­i tutte da verificare».

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Il settore del porfido oggi conta settanta aziende con settecento addetti (mille con l’indotto), quindici anni fa erano il doppio
L’oro rosso Il settore del porfido oggi conta settanta aziende con settecento addetti (mille con l’indotto), quindici anni fa erano il doppio

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