Veronesi: «Il mio thriller ambientato in Trentino»
Il thriller «XY» ambientato in un borgo isolato tra i monti diventa metafora contemporanea della paura per il Covid Libro sull’accettazione, anche quando non c’è salvezza
Un albero ghiacciato, rosso vivo, intriso di sangue. Una strage ai piedi di quell’albero: undici vite strappate da undici cause di morte diverse. Un thriller ammantato di mistero e tutto ambientato in Trentino-Alto Adige, nel romanzo di Sandro Veronesi, XY (La nave di Teseo, 450 pagine, 15 euro) .
Gli abitanti di Borgo San Giuda (nome di fantasia), paesino di 42 anime in Trentino, travolti dall’orrore di queste morti misteriose, da testimoni attoniti del male, diventano i protagonisti e tutti insieme scivolano in una follia collettiva.
Ripubblicato da La nave di Teseo dieci anni dopo l’uscita con Fandango, il romanzo di Veronesi, scrittore due volte Premio Strega, trascina nella paura di fronte a un male incontrollabile e misterioso. Un romanzo che sembra parlare dell’oggi e della paura che incatena il mondo a causa della pandemia da Covid-19.
I protagonisti del libro, don Ermete e Giovanna Gassion, giovane psichiatra in fuga da un amore finito, cercheranno di mettere in salvo quel mondo di poche anime. Una realtà che pare lontanissima, ma in realtà rappresenta noi, oggi.
«Borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, un bar, uno spaccio di alimentari e la chiesa con la sua canonica, spropositate in confronto al resto... Era un posto che non esisteva quasi, e nessuno riuscirà mai a capire perchè quello che è successo sia successo proprio lì, dove non succedeva niente».
«XY» un romanzo ripubblicato dopo dieci anni che sembra per molti versi premonitore, una metafora della contemporaneità.
«Il fatto è che oggi più di dieci anni fa è necessario trovare il modo e la forza di accettare il male senza averlo capito e combattuto - spiega Sandro Veronesi - . L’attuale folle situazione di pandemia, che grava su quasi tutti i popoli del mondo, è una minaccia, prima ancora che fisica (con il virus pronto ad aggredirci), psichica, perché potrebbe spingere ognuno di noi a oltrepassare il proprio punto di rottura. Questo avviene tanto più quanto meno scopriamo di essere in grado di accettare l’insaturo, cioè qualsiasi manifestazione svuotata di significato».
Perché la scelta di ambientare la storia in Trentino?
«Avevo bisogno di quello che oggi viene chiamato “cluster” (anche dieci anni fa, peraltro, e infatti questo termine viene utilizzato) con determinate caratteristiche, e un villaggio di montagna era l’ideale. In Trentino perché volevo che avesse una storia, tanto il borgo quanto la geografia che lo contiene, una storia fatta di confini che ballano a ogni guerra, e quindi fatta anche di ibridazione, conflitti sanati, civiltà, bellezza. Mi veniva meglio inventarmi i miei posti immaginari in una cornice come quella del Trentino»
I personaggi e la chiusura di Borgo San Giuda, dove le famiglie sono incrociate tra loro, trova terreno fertile nel campanilismo, diffidenza e ostilità verso l’integrazione e «gli altri», che caratterizza per alcuni aspetti il Trentino-Alto Adige?
«Sì, ma è proprio quell’incrociarsi di famiglie, di etnie, di lingue, che struttura anche quel minuscolo paesino come metafora di un intero mondo , cosa che non sarebbe stata possibile in un analogo borgo dell’appennino toscano o abruzzese. È un libro sull’accettazione, sulla salvezza dalla follia e anche sulla non salvezza. Borgo San Giuda è una specie di presepe. Si trattava di metaforizzare la morte, in successione rapida, di entrambi i miei genitori senza che si potesse far nulla, senza che la scienza potesse dire perché si erano presi il cancro tutti e due insieme, perché non c’era una cura».
Ci sono incontri avvenuti in Trentino che hanno ispirato alcune figure narrative del romanzo?
«No. Quello che porto nella memoria del Trentino è la straordinaria bellezza del paesaggio, e dato che sono uno sciatore, dei comprensori sciistici. Là dove, non a caso (a Madonna di Campiglio) ho deciso di terminare il romanzo con una discesa catartica e liberatoria di una delle piste di sci più belle del mondo, la Tre».
Il mistero che non arriva a una risposta, il male che non trova spiegazione possono essere consolatori in questo momento di pandemia mondiale in cui pare non esistano certezze?
«Consolatori non credo, anche perché non è di consolazione che abbiamo bisogno in questo momento, ma di capacità di accettazione. L’attuale situazione mondiale rende questo romanzo più attuale di quando è uscito, dieci anni fa: ma l’unica risposta che la sua lettura può dare agli angosciosi interrogativi che stiamo vivendo in questi mesi è che dinanzi a un ignoto così potente e strutturato non dobbiamo porre condizioni, ma semplicemente trovare il modo di attraversarlo senza perdere noi stessi, per poi godere del privilegio di partecipare al “dopo”.
Perché un dopo c’è sempre, ce l’avrà anche questa situazione assurda. Oggi siamo alle prese con un male misterioso: una pandemia che non si sa da dove viene, come si trasmette, come si diagnostica, come si cura o come ci si vaccina. E dobbiamo accettarlo senza scivolare nella follia. Oggi nessuno mi può più contestare quello che mi si contestava allora, quando il libro è uscito la prima volta dieci anni fa: il mistero che non si risolve».
Alla fine il messaggio del romanzo è quello dell’accettazione: non c’è salvezza, ma si può arrivare all’accettazione. E’ questa la conclusione?
«È questa, sì. Ma il romanzo sta lì a mostrare quanto sia difficile».
Ha scritto questo libro dopo la morte dei suoi genitori, la narrazione l’ha aiutata a elaborare quell’enorme lutto?
«Ne ero già uscito, intendevo soltanto dare conto del nero che si è addensato su di me nei primi tempi della mia vita da orfano. Quando, senza per l’appunto un gesto di accettazione, avrei potuto andare via lungo la tangente verso la mia rottura, come accade purtroppo a quasi tutti i personaggi del romanzo».
Un prete e una psichiatra sono messi a confronto nella storia. La religione e la scienza possono trovare un dialogo costruttivo?
«L’hanno trovato svariate volte, nel corso della storia. A maggior ragione se non sono le istituzioni che si parlano ma due esseri umani come Don Ermete e la dottoressa Gassion. Il loro confronto e il dialogo che ne scaturisce, non serve a salvare le persone di cui i due intendevano prendersi cura, ma almeno serve a salvare loro. Il prete don Ermete, è il protagonista anchedegli Sfiorati, vent’anni dopo. Era importante che io conoscessi il suo passato, il suo segreto, di cui parlo negli Sfiorati. XY è stato cruciale nel mio percorso, è il libro dei 5o anni, della maturità, quello in cui, per una volta, mi sono liberato del tema quasi ossessivo padri e figli. Quello dell’accettazione è decisivo.
È vero che apparteniamo a una civiltà che pensa di dovere sempre progredire, ma è anche vero che per andare avanti devi essere strutturato e pronto a stare fermo».
Chi dovrebbe leggere questo romanzo e perchè?
«Forse potrebbe rappresentare una sorpresa per chi ha letto soltanto i miei due romanzi più celebri, Caos calmo e Il colibrì. Avrebbe la dimostrazione che non è vero che io parlo solo di borghesia e di persone benestanti».
L’attuale pandemia rende questa storia molto più attuale di dieci anni fa Ciò che è ignoto va attraversato senza perdersi nè scivolare nella follia