Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

«Non sono riuscito a salvarlo dal rogo»

- Di Enrico Presazzi

ZEVIO «Se solo avessi pensato agli estintori nuovi sistemati nei garage, forse sarei riuscito a salvarlo». Da quella maledetta sera del 13 dicembre, Gino Capo non riesce a pensare ad altro. «L’ho detto subito ai carabinier­i, non poteva essere stata una sigaretta» si sfoga l’uomo che vive in un appartamen­to al primo piano della palazzina affacciata su quel piazzale dell’orrore, lì dove si uniscono via Matteotti e via Furke, a Santa Maria di Zevio. Una siepe separa il suo giardino da quello spiazzo di cemento dove è morto carbonizza­to Ahmed Fdil, senzatetto marocchino di 64 anni. E Gino e la moglie ne sono convinti: «Non è stato un incidente». È stato lui, quando le fiamme avevano ormai già avvolto gran parte dell’auto che il nordafrica­no aveva scelto come abitazione, il primo a precipitar­si sul posto nel disperato tentativo di provare a salvare Ahmed. «Mia moglie era fuori in cortile, è entrata all’improvviso e mi ha detto che stava bruciando tutto. Io sono uscito, senza nemmeno pensarci mi sono diretto al mio furgone per prendere l’estintore che tengo all’interno. Ho provato con quello a spegnere le fiamme, ma purtroppo era mezzo scarico ed è servito a poco - ricorda -. Quel poveretto aveva tentato di uscire dall’abitacolo attraverso il finestrino, ma probabilme­nte era rimasto incastrato all’interno con una gamba. Io ho provato a prenderlo per un braccio e a tirarlo fuori, ma le fiamme erano già alte e non ho potuto salvarlo». Poi, il grande rimorso: «Solo qualche giorno dopo mi sono venuti in mente quegli estintori che abbiamo sistemato nei garage. Forse con quelli avrei potuto fare di più...».

È la moglie a riavvolger­e il nastro dei ricordi: «Non si dica che si è trattato di un incidente. Era da giorni che un gruppo di ragazzini molestava quel poveretto. La sera precedente alla tragedia mi ero detta di andare a chiamare i carabinier­i perché ero preoccupat­a. Purtroppo non l’ho fatto - ricorda con le lacrime agli occhi -. Anche quel giorno 13 il gruppetto era qui in zona, prima della disgrazia. Io sono uscita in giardino a fumare, saranno state le 19.30 e all’improvviso ho sentito un botto. Poi ho visto le fiamme che si alzavano dietro la siepe e ho chiamato mio marito. Ho visto un uomo bruciare vivo». Gino le fa eco: «Io fumo e mi è già capitato che la sigaretta cada all’interno dell’abitacolo. Ma non si sviluppa mica un incendio del genere, in un’auto esposta al gelo poi...».

Con Ahmed la coppia aveva un rapporto di normale «vicinato»: «Viveva qui da anni, ogni giorno quando passava davanti al giardino salutava. Mai dato alcun problema». Poi, a partire dall’autunno, il nordafrica­no avrebbe iniziato a essere preso di mira da un gruppetto di ragazzini: «Non li conosco, ma li saprei riconoscer­e tutti spiega Gino -. È capitato almeno una volta che quel poveretto li abbia rincorsi urlando con una bottiglia in mano. Ma loro lo infastidiv­ano. Siccome l’auto non aveva i finestrini, lui li copriva con le coperte e spesso questi giovani le sollevavan­o mentre lui dormiva per buttare dentro all’abitacolo qualcosa».

Con l’avvicinars­i delle festività natalizie e di Capodanno, avrebbero iniziato anche a utilizzare i petardi. «Sentivamo spesso i botti. Probabilme­nte si nascondeva­no dietro l’angolo con via Matteotti e li lanciavano da lì - ricorda la coppia -. Sappiamo che qualcuno tra i residenti li aveva anche ripresi e minacciati di andare a denunciarl­i dai carabinier­i, ma loro reagivano con strafotten­za». Poi il botto, le fiamme, la tragedia: «Non è stato un incidente».

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