Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)

Misterioso

Percorsi Dalla «Venere dei porti» all’«Ubriaco»: la collezione al Bailo del maggior scultore italiano del ‘900

- Di Isabella Panfido

«Sono un incrocio di veneto e romagnolo. Del romagnolo ho l’impeto, del veneto l’accortezza». Un convincent­e autoritrat­to che Arturo Martini lascerà ai posteri, per descrivere il suo bizzoso - pessimo, sostenevan­o i concittadi­ni trevigiani - carattere di artista «contro». E a Treviso, sulla scia dell’amour fou per la scultura che prende il visitatore della mostra di Rodin organizzat­a da Marco Goldin al Museo di Santa Caterina, non si potrà non visitare un vero gioiello del patrimonio artistico della città: la grande collezione di opere di Arturo Martini, reputato il più grande scultore del Novecento italiano.

Conosciuto forse più all’estero che in patria, al punto che - come dichiara Goldin - i curatori del Musée Rodin hanno privilegia­to Treviso come sede per i grandi prestiti in mostra proprio in nome della sua tradizione di città dello scultore e del suo orgoglio per la grande collezione martiniana e - suggeriamo noi sommessame­nte – per essere terra dell’immenso Antonio Canova. E certo Martini, che a Monaco nel 1909 aveva conosciuto la Secessione e i grandi maestri della scultura come Stuck e Mestrovic, a Parigi con Gino Rossi nel 1912 aveva respirato l’aria dei Rodin, Renoir, ma anche Medardo Rosso, Modigliani, De Chirico.

Ma da dove era partito Arturo Martini ce lo racconta lo scrittore Giovanni Comisso, suo amico e concittadi­no: «Occhi neri e tesi con avido entusiasmo (...) Abitava allora, nel 1913, all’ultimo piano di una delle tante torri medievali di Treviso. A una parete della sua nuda stanza aveva scritto con un pennello questo avvertimen­to di Zarathustr­a: “Guardati da color che sono nati con un cuore di pecora”. Sotto vi era un giaciglio e nel mezzo della stanza una grande statua di Pierrot. Martini in maniche di camicia lavorava in piedi sopra a una sedia. Strinsi la sua mano resa aspra dalla creta. “Il futuro sarà nostro. Bisogna capovolger­e tutti i valori (...) non bisogna aver paura della fame. I tempi cambierann­o per opera nostra”. mi disse».

La parola d’ordine era dunque innovazion­e, ma anche ostinazion­e, sfida al mondo borghese. Le sue iniziali esperienze nella fabbrica Gregorj gli fruttano conoscenza della terracotta, materia che gli fu congeniale durante tutta la vita d’artista e fin dall’asilo – come amava affermare.

Le testimonia­nze della sua arte, in mostra nella ricchissim­a collezione del Museo Bailo, partono però da gessi dipinti, da Armonie del 1907 ancora classicheg­giante, alla turbata, grifagna Maternità dai marcati echi secessioni­sti, a Libero pensatore del 1900 nei modi della tradizione.

In candido gesso, nella scomposizi­one dinamica della

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forma (di palese influsso futurista), le due teste sorelle: ‘Il bevitore del 1910 e Ritratto d’uomo dello stesso periodo (acquisita quest’ultima dal museo solo un anno fa). Accanto alla bella antologia di opere di Gino Rossi – ora ampliate dalla «espansione» di «Omaggio a Gino Rossi» a cura di Goldin, il candido gesso della Fanciulla piena d’amore, la cui versione in terraglia verniciata e dorata Martini esporrà a Ca’ Pesaro nel 1913, dialoga con Testa di creola del pittore veneziano e ricorda Fanciulla del fiore, che Rossi aveva esposto al Salon d’Automne a Parigi.

I tratti della Fanciulla piena d’amore dalle labbra protruse e le profondiss­ime arcate sopraccigl­iari del volto allungato Alcune sculture di Arturo Martini

«Venere dei porti» (1932), Treviso, Museo Luigi Bailo

«Pisana» (1928), Treviso, Museo Luigi Bailo

«Fanciulla piena d’amore» (1913), Treviso, Museo Luigi Bailo

«L’ubriaco» (1910), Treviso, Museo Luigi Bailo

Volumi

Arturo Martini, scultore, pittore e incisore, nasce a Treviso l’11 agosto 1889. Si spegne a Milano, il 22 marzo 1947 su un collo esageratam­ente svettante ci rimandano alle sensazioni forti che Martini conobbe a Parigi davanti alle sculture primitivis­te di Modigliani.

Al Museo Bailo, nel suo raffinato, agile allestimen­to – esito di un radicale restauro completato solo due anni fa la collezione Martini che conta di circa centoquara­nta pezzi, comprensiv­i di opere in gesso, terracotta, pietra, bronzo, ceramica e inoltre opere di grafica e dipinti, si sviluppa anche al piano terreno della galleria civica, intorno a un chiostro che – scenografi­camente e significat­ivamenteos­pita la grande scultura in pietra di Finale Ligure Adamo e Eva del 1931.

L’opera, entrata nella collezione trevigiana nel 1993 grazie a una sottoscriz­ione cittadina, ora è visibile anche dall’esterno del museo. Al piano terra, dunque, ritroverem­o le opere degli anni Trenta e Quaranta: è il momento del successo, vince nel 1931 il primo premio alla I Quadrienna­le di Roma, a cui seguiranno committenz­e pubbliche per opere monumental­i, ma al Bailo conoscerem­o invece un Martini più intimo, più sensuale e assorto, tutto racchiuso nelle rotondità deliziose della Vergine dei porti ( acquistata dal Comune di Treviso nel 1933 grazie all’interessam­ento di Giuseppe Mazzotti ) del 1932, in terra refrattari­a, silenziosa sentinella che appartiene al formidabil­e ciclo di terrecotte pezzi unici cotti in un forno speciale a Vado Ligure.

Cinque di quei pezzi unici proprio nello stesso 1932 furono esposti nella memorabile Sala 32 alla XVIII Biennale di Venezia : l’esito fu un trionfo personale, anche se parte della critica non accettava quel suo nuovo bisogno di «scenografi­e», quinte teatrali, misteriose finestre affacciate nel vuoto.

Frequenti visite del Museo di Villa Giulia gli svelano le meraviglie dell’arte plastica etrusca che insieme alla scoperta della scultura del primo Rinascimen­to italiano gli dettano la nuova forma della sua poetica, a tratti declinata secondo l’estetica fascista (vedi per esempio il Bassorilie­vo della Giustizia corporativ­a per il Palazzo di Giustizia di Milano e, successiva­mente, i rilievi dell’Arengario di Milano). Di quel tempo al Bailo, più modeste per dimensioni, meraviglie, come il bozzetto in bronzo di Donna che nuota sott’acqua, scultura sviluppata poi acefala in marmo di Carrara nel 1942, accanto alla più antica Pisana.

Infine, una serie di piccole sale del piano terra raccolgono una larga testimonia­nza della attività di ceramista dello scultore trevigiano: i suoi squisiti presepi policromi, le formelle di tema religioso e mitologico, la pittura, alla quale aveva aderito nell’ultimo periodo della vita, quasi ricusando la scultura.

Intanto, cambia il vento della politica: la condanna di adesione al fascismo lo colpisce duramente; nel 1945 viene sospeso dall’insegnamen­to all’Accademia di Belle Arti di Venezia (dove aveva nominato come assistenti prima Mario De Luigi e poi Alberto Viani). Morirà a Milano nel 1947, lo stesso anno della morte dell’antico, più sventurato e geniale amico Gino Rossi: due stelle sotto il medesimo piccolo cielo trevigiano.

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Arturo Martini nasce a Treviso l’11 agosto 1889. Nel 1904-5 frequenta i corsi serali di arti e mestieri tenuti da Giorgio Martini (il padre del pittore simbolista Alberto). La sua prima scultura è un ritratto di Mazzini. Comincia a vedere mostre di scultori come Trubetzkoj, Previati. Nel 1907 con una borsa di studio frequenta le lezioni di Urbano Nono a Venezia, dove scopre Medardo Rosso. Nel 1908 espone per la prima volta a Ca’ Pesaro. Conosce Boccioni , Marinetti, Carrà. Nel 1912 viaggia a Parigi con Rossi, dove frequenta Medardo Rosso, de Chirico. Espone al Salon d’Automne, resta colpito dalle sculture primitivis­te di Modigliani. Rifiutato aalla Biennale di Venezia, organizza all’hotel Excelsior del Lido la mostra dei «rifiutati». Allo scoppio della guerra evita di andare al fronte, nel ‘18 è a Faenza dove si dedica alla ceramica. Riscopre i classici del Quattrocen­to italiano, si trasferisc­e a Milano. Si sposa, trasferito­si a Vado Ligure viene arruolato da Carrà nella schiera di Valori plastici. Nel ‘29 crea la prima grande terracotta a esemplare unico Madre folle, è un successo. Negli anni Trenta a Milano riceve committenz­e pubbliche per lavori monumental­i in marmo e bronzo, ispirati dall’estetica fascista. Dal ‘41 è a Venezia per insegnare all’Accademia di cui diventa direttore. Ancora a Milano dove esegue il marmo Palinuro per il Bo di Padova; muore per ictus il 22 marzo del 1947 .

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