Corriere della Sera (Bergamo)

Una terra colpita e diventata simbolo ora chiede giustizia

Le sirene, le strade deserte e quelle bare portate via I giorni più bui della pandemia e la richiesta di verità

- Di Marco Imarisio

Come sembrano lontani, quei giorni così ingiusti e crudeli. Nelle strade vuote si sentiva solo il suono delle sirene, una ogni cinque minuti. Come un preavviso di lutto, come una bomba che sta per andare a bersaglio, magari oggi non tocca alla tua famiglia, ma colpirà senz’altro qualcuno che conosci. Anche i medici e gli infermieri cadevano come mosche, al Pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII sembrava una infermeria di guerra, malati che rantolavan­o sulle barelle, a terra nei corridoi, operatori sanitari che lottavano e piangevano e si addormenta­vano sfiniti nel parcheggio.

A un certo punto i parroci avevano smesso di usare le campane, perché i morti erano troppi. I feretri venivano chiusi a chiave in chiesa e nelle palestre. Poi venne quella foto, che divenne una parte per il tutto, l’istantanea di un dramma, di una piaga biblica. I camion dell’esercito caricavano le bare, per portarle a essere cremate o sepolte altrove, uomini e donne che avevano trascorso la loro vita senza uscire dalle loro valli, dai loro paesi, finivano in un’urna a Ferrara, a Firenze, a Napoli, dopo essere morti da soli, senza un ultimo abbraccio, con i loro familiari che non ne sapevano più nulla, costretti a cercare i loro resti in tutta Italia. A scrivere queste righe, viene da scuotere la testa ancora una volta, e viene da porsi la stessa domanda che ci ha accompagna­ti in questi mesi. Come è potuta accadere una cosa del genere, come è stato possibile, e perché.

Oggi il presidente della Repubblica Sergio Mattarella arriva nella città e nella provincia che più di ogni altra zona d’Europa e forse del mondo hanno sofferto le conseguenz­e della pandemia. Arriva per ricordare i seimila bergamasch­i morti per Covid-19, cinquemila dall’ultima settimana di febbraio a fine marzo, e chissà quanti ne mancano ancora a questo elenco, tra quelli che ci hanno lasciato prima, vittime di un male al quale ancora non era stato dato un nome. Bergamo e la sua provincia sono diventati un simbolo. E il focolaio di Alzano Lombardo, mai circoscrit­to, sul quale si è intervenut­i con un ritardo che grida vendetta a Dio e agli uomini, riscriverà ben presto la genesi del Covid-19 in Italia, una vicenda che gli abitanti di questo territorio si porteranno addosso per sempre, marchiata a fuoquasi co nell’anima e sul corpo.

Proprio per questo, oggi più di sempre bisogna cominciare con quello che è stato, con quei ricordi atroci, anche se in giro c’è tanta voglia di dimenticar­e, anche se il resto d’Italia ormai sta andando in un’altra direzione, verso un futuro qualunque purché ci allontani da un passato invece così recente da essere ancora cronaca e non storia. Proprio per questo bisogna affiancare altre foto a quella divenuta celebre in tutto il mondo. Ad esempio, quella scattata il 26 febbraio a Oriocenter, la mecca dello shopping bergamasco, che raffigura il centro commercial­e completame­nte deserto. E subito quella risalente al giorno precedente, con i vertici della Regione e della Protezione civile nella loro consueta conferenza stampa, che ammiccavan­o, in alcuni casi sorridendo, e alle domande sul focolaio nella Bergamasca e sulla zona rossa dicevano che sì, forse, magari era il caso di fare qualcosa, che ci avrebbero pensato, che avrebbero fatto sapere. La gente aveva capito, aveva paura, l’aveva vista arrivare, la tragedia, e si era chiusa nelle proprie case. Altri, quelli che dovevano decidere, invece no.

Sarà una visita breve ma molto intensa, quella del presidente. Un modo per rendere omaggio a una terra straordina­ria, che si è vista imputare l’epidemia a un modo sbagliato di intendere la vita, con tutto quel lavoro e tutti quei capannoni, quando invece è sempre la sublimazio­ne di uno stile di vita semplice, segnato dalla fede e dalla necessità del pane quotidiano, ora et labora, nient’altro che questo, altro che ripensamen­ti, altro che cambiare tutto, anche se qualche industrial­e della zona forse ha molto da rimprovera­rsi. Persino in quei giorni, i bergamasch­i non hanno tradito la loro identità. Qui non si è mai suonato, e non si è mai cantato sui balconi, perché magari sul balcone accanto c’era qualcuno che stava piangendo, ma il dolore è stato sempre composto, sobrio, com’è questa terra. Qui è disseminat­o di storie di incredibil­e eroismo, non c’è bisogno di andare troppo lontano, basta guardare a quel che ha fatto l’ospedale Papa Giovanni XXIII, in ogni sua espression­e, un autentico bastione di resistenza al male, di lotta senza quartiere, fino all’estremo. E va ricordato come anche la sanità privata, tanto vituperata di questi tempi, abbia fatto la sua parte, con l’Humanitas Gavazzeni completame­nte riconverti­ta al Covid-19. Ci sono stati atti di coraggio individual­i e collettivi, un ospedale da campo realizzato in meno di due settimane dagli alpini dell’Ana e dalla curva nord dell’Atalanta, la Dea tanto amata che continua a volare perché le sue rimonte sono quelle di una provincia che non si è pianta addosso neanche per un attimo, e aveva molte buone ragioni per farlo. E che oggi è pronta a ripartire, a passare da simbolo della sofferenza a quello di un nuovo inizio. Davvero non ci viene in mente un posto e una popolazion­e migliori, per cominciare a rimettere in piedi l’Italia.

Questa è gente che ha il senso della storia. E quindi sa bene che tutti quei morti, tutto quel dolore, esigono una spiegazion­e. Esigono rispetto, magari a cominciare dall’istituzion­e di quella commission­e d’inchiesta presso la Regione, chiesta a gran voce dai parenti delle vittime, che il Pirellone continua a rinviare, con cavilli, ragioni di opportunit­à, mezzucci da retrobotte­ga della politica. Il presidente Mattarella, in quanto capo anche del Csm, è la persona più adatta per recepire questo grido. Oggi è il momento dell’unità, non delle polemiche, d’accordo. Da domani, deve cominciare davvero una nuova vita. All’insegna non del giustizial­ismo, che certo non appartiene ai bergamasch­i, ma della verità. Perché senza memoria, non esiste comunità. E senza giustizia, non può esserci alcun futuro.

❞ Per guardare al futuro Tutti quei morti, tutto quel dolore, esigono una spiegazion­e. Esigono rispetto

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Lo choc Le prime sessantaci­nque bare trasportat­e fuori regione dai camion dell’esercito la sera del 18 marzo

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