L’EQUIVOCO DEI DIVERSI POPULISMI
La categoria del «populismo» usata come corpo contundente s’è dimostrata inefficace a stigmatizzare, e dunque ad arginare, Lega e Movimento 5 Stelle. A maggior ragione risulta inadeguata oggi a comprenderne i trionfi elettorali del 4 marzo. Specialmente al Nord. Specialmente a Brescia. Il caso più strabiliante è quello della Lega a cui taluni applicano ancora la categoria del «voto di protesta» quasi non si fossero accorti che la prima volta in cui la Lega fu (a Brescia) il primo partito risale al 1992. Che in 25 anni il voto alla Lega è diventato un «voto di sistema» come fosse una Csu bavarese in salsa padana. Che in un quarto di secolo il Carroccio ha guidato e guida le principali regioni del Nord, ha convocato e vinto referendum, ha piazzato uomini e donne nei gangli del potere pubblico. Che la Lega è l’unico brand elettorale rimasto sulla piazza identico a se stesso nell’arco di una generazione utilizzando gli strumenti classici di un partito (sezioni, riunioni, congressi, feste di piazza, volantinaggi), inventandone di nuovi (i gazebi) e rinnovando quelli vecchi (passando dal giornale e dalla radio di partito al profilo social del leader). La Lega occupa al Nord un ruolo sistemico non diverso da quello che fu della Dc con la differenza che — per effetto degli equilibri correntizi e delle alleanze esterne — la Dc usava il serbatoio del voto moderato e popolare per promuovere politiche cautamente riformiste.
La Lega invece attinge a un bacino elettorale simile per alimentare politiche di destra, un sistema valoriale cattoconservatore, un ethos incardinato su due concetti chiave — lavoro e territorio — cementati dal tema della sicurezza e cristallizzati nello slogan «padroni a casa nostra». Il mondo della produzione (imprenditori, artigiani, tecnici) che tre anni fa aveva fatto grandi aperture di credito a Renzi, stavolta ha riconosciuto in lui un perdente di successo (successo nella classifica dello sgradimento). Non c’è gratitudine che tenga, verso job’s act e impresa 4.0, quando un leader ha deluso e si avverte che non avrà futuro. Se il successo di Salvini nel Centro e nel Sud è frutto di un’eccitata esplorazione dei lidi lepenisti, al Nord il voto della Lega ha il sapore di un ritorno a un porto rassicurante. La Lega edizione 2018, inoltre, è talmente un partito a struttura tradizionale che non ha più bisogno di attingere per i propri gruppi dirigenti alla società civile come fece ai primordi, quando furono catapultati in Parlamento imprenditori, manager, artigiani, medici, con una certa aria di allergia verso «Roma ladrona» e le liturgie della democrazia parlamentare. Stavolta partono da Brescia alla volta del Parlamento giovani cresciuti nelle strutture di partito, professionisti della politica che nel ruolo parlamentare vedono dichiaratamente un compimento, un traguardo, una realizzazione. I pentastellati, all’opposto, sono talmente poco un partito che il tracollo della rappresentanza istituzionale bresciana (da cinque a due parlamentari), con sensibile vantaggio per i rappresentanti di altre province, viene registrato come accidente secondario e ininfluente. Fors’anche perché non si ricordano memorabili battaglie istituzionali dei grillini di casa nostra. Il rapporto dei pentastellati con il territorio e le sue domande è insomma incerto e indefinito: si spiega anche così lo stallo dei risultati al Nord e la propensione fondata ad attribuire al M5S un voto d’opinione e di sinistra per quel tanto di protesta — se non di sdegnata irritazione — che alla sinistra s’è tradizionalmente attribuita. In realtà ad accomunare i due partiti vincitori del 4 marzo e i rispettivi elettorati qui al Nord c’è il tentativo dichiarato di collocarsi oltre le categorie politiche novecentesche e di scavalcare il classico crinale destra/sinistra, collocandosi un po’ di qua e un po’ di là. Tutto questo, sia chiaro, non è un indizio di come finirà il rebus postelettorale. Anzi, ne rappresenta un inciampo. E una complicazione.