Quel ritmo che governa l’universo nei versi di Cesare Lievi
«Riconosci quale ritmo tiene gli uomini». La chiave di accesso dell’ultima raccolta poetica di Cesare Lievi ( Al ritmo dell’assenza, pp. 115, euro 12,00) sta in questo esergo: un ver so di Archi loco ( 680 a.C.circa – 645 a.C.), considerato il più grande poeta lirico dell’antichità, che scolpisce con vividezza di immagine la mutabilità delle vicende umane con l’esplicito invito a trovare un equilibrio, una giusta misura, un calmiere dei sentimenti e dello spirito (una modulazione di frequenza dell’anima?) per destreggiarsi tra le occasioni favorevoli e quelle avverse. Qual è il segreto? Conoscere il ritmo, appunto.
Rythmós, in greco, sta a indicare l’ordine, la norma che governa tanto la vita dell’uomo, quanto quella dell’universo. Non si deve né gioire eccessivamente in caso di successo, né abbattersi troppo in caso di sventura. E’ straordinario che questo Un concetto cominci a esprimersi prima nella poesia lirica per poi diventare oggetto di speculazione del pensiero filosofico classico. Anzi no, è logico che la poesia, intelligenza del cuore, sia la primordiale fonte di conoscenza e di verità.
Cesare Lievi,regista bresciano di respiro europeo, alterna ormai da anni la sua attività teatrale con la musicalità dei fonemi. La poesia fa risuonare la parola, bonificandola dalle scorie dell’uso comune, allo steso modo del linguaggio teatrale, che è qualcosa di più vicino ad uno spartito piuttosto che ad un testo di prosa. «I poeti lavorano di notte/quando il tempo non urge su di loro,/ quando tace il rumore della folla/e termina il linciaggio delle ore». E ci sono molte notti in solitudine in questi versi di Lievi, notti insonni, «notti che dilagano dentro il giorno», in cui i pensieri frullano e incombono e i lutti ritornano come al nido. L’assenza è un’eterna presenza. Con un tocco lieve, ma nello stesso tempo grave, Lievi capta l’inesorabilità delle stagioni e del tempo (...che ti cresce /addosso e ti disfà), non finisce mai di rielaborare la perdita della madre, ricorrente nella sua smemoratezza senile (Sola nel tuo non tempo./nell’arnia d’insolvenza/ che t’avvolge,/ mi chiami padre a volte). Ed è una assenza cocente anche quella del fratello Daniele, scenografo geniale precocemente scomparso, che compare come un fantasma concreto. Lampi di memoria, soprassalti di emozioni, singhiozzi visionari, dentro una «casa rimbambita/di sussurri, di sciami d’ombre». Ma anche lacerti gardesani, di Vienna e Brasile. Con le sue poesie, malinconiche ma vitali, Cesare Lievi ci ricorda che il passato ci sta sempre davanti. Questa è la vita e non ne abbiamo una di scorta.