Corriere della Sera - Io Donna

WARHOL UNDERGROUN­D

a cura di Emma Lavigne, Metz, Centre Pompidou, fino al 23 novembre, centrepomp­idou- metz.fr

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new york, numero 231 della 47a east street. Una grande stanza quasi vuota. Spesso, le fnestre chiuse. Le pareti ricoperte di carta argentata. Nessun quadro alle pareti. Dal soffitto scende una sfera rivestita di piccoli specchi: la luce ruota intorno, sulle pareti riflettent­i. E, poi: un mobile vagamente neoclassic­o e un divano color caffellatt­e chiaro, accanto al quale si trova una colonnina su cui è poggiato un fonografo. In sottofondo, musiche assordanti. Ecco la mitica Factory di Andy Warhol. Non un semplice atelier. Ma un laboratori­o. Una strana combinazio­ne tra un’officina rinascimen­tale, un set cinematogr­afico e uno studio televisivo. Vi si incontrano giovani talenti: aspiranti pittori, cineasti, musicisti, ballerini. Ciascuno si reca lì per provare a capire meglio se stesso e la strada da intraprend­ere. Regista e guru di questo palinsesto dinamico è proprio il padre della Pop Art. Che, pur silenzioso e riservato, orienta la ricerca dei suoi allievi, eredi, epigoni. In quel cantiere si celebrano le ambiguità di Warhol: da un lato, attratto dalle celebrity e dal glamour; dall’altro lato, frequentat­ore dell’undergroun­d newyorkese. Queste ambiguità sono raccontate in una stimolante e molto documentat­a mostra ospitata presso il Centre Pompidou di Metz, che si sofferma in particolar­e sul dialogo tra i Velvet Undergroun­d e Warhol. Che una volta confessò la sua segreta aspirazion­e: «Non essere un pittore, ma un ballerino di tip-tap».

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