RIDATECI LE MASCHIACCE
«ma perché non ti metti una gonna, perché non ti fai una zazzeretta. Nun ciai proprio ambizione, Madonna mia». La riprovazione della nonna della rubrichista, come capita con le critiche familiari, era una grande soddisfazione. La disperazione dell’ava legittimava a suo modo la condizione di bambina-maschiaccio, pantalonata, disinteressata a moda e frizzi e lazzi femminili. Ai tempi, avendo accesso ai libri per ragazzi, un po’ di referenti si trovavano: Jo March di Piccole Donne, Piperita Patty dei Peanuts, per tacere della più grande di tutte, Pippi Calzelunghe. Ora Pippi è di nicchia, travolta da altri modelli femminili per bambine, più commerciali; molto, molto, diciamo, più trash. E succede che tante bambine maschiaccio si sentano più strane di una volta, addirittura. Perché una volta le bambine non sfoggiavano leggings-lustrini-minigonne animalier. Mamme e nonne le volevano femminilmente ambiziose, ma non conciate da tangenziale. E perfno le trentenni sono nostalgiche; come l’americana Liz Prince, autrice di un recente graphic novel di successo, Tomboy, “maschiaccio”. Sono nostalgiche anche del termine, ora politicamente scorretto. Le bimbe maschiaccio rischiano oggi di essere defnite “nonconformiste sul genere”, il che potrebbe deprimerle più delle apprensioni delle ave o del bullismo degli amichetti (intanto Ellen DeGeneres sponsorizza per Gap una linea di magliette per bambine assertive; ma non saranno abbastanza oltraggiose, onde farle regalare dalle nonne, si teme).