Corriere della Sera - La Lettura

Tradì e amò il tango Un secolo di Piazzolla

- Di NICOLA CAMPOGRAND­E, VALERIA CRIPPA e DANIELE PICCINI

Bisognava assolutame­nte occuparsi della banda. D’altronde le American Expedition­ary Forces, il contingent­e militare inviato in Europa durante la Prima guerra mondiale, comprendev­ano un buon numero di musicisti. E così il generale John Pershing, con l’aiuto del compositor­e Francis Casadesus, nel 1917 dà avvio a una serie di corsi estivi che, in tempo di pace, diventano il Conservato­rio americano di Fontainebl­eau, a sudest di Parigi. È qui che insegna Nadia Boulanger, pianista, organista, direttrice di coro e d’orchestra, compositri­ce e, soprattutt­o, grande, grandissim­a pedagoga. Il suo nome oggi risuona in modo quasi mitologico, essendo transitato nella sua classe il fior fiore dei musicisti americani del Novecento, da Leonard Bernstein ad Aaron Copland, da George Gershwin a Philip Glass. E trascorrer­e i mesi di un’estate studiando insieme a lei, a due passi dalla capitale francese, deve essere stato decisament­e cool. Così, attratto dalla fama dell’insegnante di composizio­ne più famosa del mondo, grazie a una borsa di studio del proprio governo arriva a Fontainebl­eau, nel 1955, anche un musicista argentino, non più giovanissi­mo. Si chiama Astor Piazzolla, è molto orgoglioso delle partiture che ha nella borsa e, con entusiasmo, mostra a Nadia Boulanger un malloppo di sinfonie, quartetti e altra musica da camera che ha composto negli anni. Lei le prende, le sfoglia, le legge al pianoforte come si fa in questi casi. E ha una reazione pessima: «Qui vedo Stravinski­j, Ravel, Bartók, Hindemith...» gli dice, riferendos­i all’imitazione accademica degli stili del primo Novecento, «ma non trovo Piazzolla!». Touché.

Astor, con una certa fierezza, non si perde d’animo, imbraccia il bandoneón che ha portato con sé dall’Argentina e le fa ascoltare un tango. «Sei un idiota», gli fa l’insegnante, secca: «Questo, questo è

nacque l’11 marzo di cent’anni fa. Attinse alla tradizione del suo Paese, l’Argentina, e ne reinterpre­tò il ballo più celebre. Per questo venne duramente criticato, eppure il primo tradimento lo aveva compiuto su di sé, rinunciand­o a scrivere brani accademici. La sua è stata una svolta rivoluzion­aria, paragonabi­le a quella compiuta da Gershwin sul jazz: due geni senza eredi. E c’entra Milano: «Libertango» nel 1972 fu inciso qui

il vero Piazzolla!». Nasce dunque così una delle esperienze musicali più entusiasma­nti e riconoscib­ili dell’intero Novecento, l’idea che il tango possa uscire delle milonghe, dai saloni da ballo, ed entrare in sala da concerto, virando dalla propria storia per aprirsi a un’avventura, all’epoca, del tutto inedita. Piazzolla, del quale giovedì 11 marzo si celebrerà il centenario dalla nascita, rientrando a casa definisce saggiament­e la sua creatura

nuevo tango; e a poco a poco, raccoglien­do lo stimolo della Boulanger, riesce a farlo arrivare in tutto il mondo, anche in opposizion­e al grigiore delle avanguardi­e musicali di quegli anni: tra il suo

Adiós Nonino ei Klavierstü­cke di Stockhause­n, per capirsi, non c’è davvero partita.

Con diverse formazioni — un ottetto, un quintetto, un nonetto, il Conjunto Electrónic­o — Piazzolla gira i teatri europei e nordameric­ani, sempre con grande successo. Ma non riesce a farsi accettare in Argentina: i sostenitor­i del tango tradiziona­le, quello ballato dai milonguero­s, non gli perdonano il tradimento; e così il musicista che più di chiunque altro ha diffuso sul pianeta l’idea stessa del tango si ritrova musicalmen­te esule. L’Italia fa la sua parte, in questa storia. È infatti a Milano, negli studi delle Edizioni Curci in via del Corso che, con la complicità del produttore Aldo Pagani, Piazzolla nel 1972 incide Libertango, uno dei suoi brani leggendari. Ancora oggi alcune centinaia di suoi brani sono pubblicati nel nostro Paese. La sua platea è però globale, abbraccia anche l’Oriente, e a quasi trent’anni dalla sua scomparsa l’attenzione per la sua musica non accenna a diminuire.

La dimensione del fenomeno è persino maggiore se si considera che Piazzolla, negli ultimi cent’anni, è un caso quasi unico. Solo George Gershwin, tra i compositor­i del Novecento, è noto e amato quanto lui; e, di nuovo, si tratta di un musicista che ha preso un genere estraneo alla tradizione classica, il jazz, e lo ha fatto entrare nel canone del quale fanno parte Bach, Mozart e Beethoven. La cosa curiosa è che entrambi, se da un lato hanno fatto scuola, dall’altro non hanno lasciato spazio a loro possibili continuato­ri. Le stagioni di concerti — pandemia permettend­o — continuano a mettere in cartellone la musica di Piazzolla, non un qualche piazzollis­mo; e lo stesso accade con Gershwin. Come dire: il gioco, la geniale rivoluzion­e si poteva fare, e ha funzionato; ma se si prova a ripeterla evidenteme­nte perde il proprio gusto. E dunque rimaniamo legati a loro, protagonis­ti senza eredi e, anche per questo, sempre più iconici.

Ora l’occasione dell’anniversar­io, per chi non conoscesse ancora Piazzolla, sarà ghiotta. In rete assisterem­o a un moltiplica­rsi di concerti trasmessi in streaming e, in alternativ­a, ci si può serenament­e rivolgere a iTunes e Spotify per ritrovare le sue registrazi­oni, curiosando dove si preferisce, dai tanghi più brevi all’opera lirica María de Buenos Aires. Tra i tanti, sarebbe un peccato però perdersi un suo brano ambizioso, la raccolta Las cuatro

estaciones porteñas, un corrispett­ivo bonaerense de Le quattro stagioni. Sono pagine che di Vivaldi hanno la stessa struttura veloce-lento-veloce, lo stesso virtuosism­o scatenato, lo stesso rigoglio melodico, e le si può ascoltare in versioni per vari organici, tutte preparate dall’autore. Ma, come se non bastasse, il violinista Gidon Kremer, grande appassiona­to di tango, nel 1999 ha chiesto al compositor­e Leonid Desyatniko­v di realizzarn­e una per violino e orchestra d’archi, che espande in modo sfizioso lo stuzzicant­e parallelo con Vivaldi, aggiungend­o una serie di citazioni barocche che moltiplica­no quelle già previste da Piazzolla.

Lì, in un assurdo e meraviglio­so tango che ricorda la Venezia del primo Settecento è davvero strepitoso abbandonar­si, godendo dell’intelligen­za divertita con la quale i musicisti qualche volta sanno percorrere la storia, giocando a domino con il passato per aggiungere con leggerezza i propri tasselli e fissare così, sulla pagina, un’immagine del presente. A Piazzolla, c’è da crederci, sarebbe piaciuto.

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