Del Monaco, indimenticabile Otello Il successo
A cent’anni dalla nascita un ricordo del grande tenore che legò il suo nome al «Moro» verdiano
Teatro San Carlo di Napoli, 11 febbraio 1969: il mio primo Otello. Mario Del Monaco non riesce quasi a dire l’Esultate tanti applausi lo salutano quando entra in scena. Mi venne un brivido nella schiena che durò sino allo spegnersi del Motivo del bacio e di tutto il Dramma musicale. È restato anche il più bello fra gli Otelli da me ascoltati insieme con quello diretto da Riccardo Muti. Sul podio c’era il grandissimo Oliviero de Fabritiis il quale riusciva a ricondurre tutto, e senza parere, a somma disciplina (ho raccontato che sotto la sua bacchetta Luciano Pavarotti affrontava perfettamente le difficoltà ritmiche del Mefistofele, lui che del solfeggio aveva una visione approssimativa); Desdemona era Elena Suliotis, allora nel suo splendore; e Jago Anselmo Colzani, un grande baritono che non diede il meglio di sé nel cantabile ma nei ruoli, appunto, declamatorî e grotteschi. M’interessa rilevare che, di fronte al più grande interprete novecentesco dell’Otello (insieme con Giacomo Lauri Volpi e Carlo Bergonzi) de Fabritiis salvasse la ragioni drammatiche con un’asciuttezza narrativa sconosciuta al medesimo Karajan, l’Otello del quale si fa più apprezzare per sontuosità sinfonica; i direttori italiani come Antonino Votto, Gabriele Santini e Giuseppe Patané, che tutti hanno diretto l’Otello con Del Monaco, si segnalano per tale somma qualità. Le finezze armoniche e orchestrali che Verdi dissemina con regale abbondanza nel capolavoro si debbono delibare nel ricordo, non durante lo svolgersi della tragedia. (In via incidentale: Verdi ebbe l’amarezza d’esser tacciato, come già era avvenuto per l’Aida, di wagnerismo: ma questo aspetto realizza un desiderio che Wagner nutriva per se stesso che, se confrontiamo, per esempio, il Tristano o il Crepuscolo degli Dei con l’Otello, resta un desiderio).
Del Monaco, nato a Firenze il 27 luglio del 1915 da padre napoletano e mamma siciliana, interpretò l’Otello 427 volte. La sua potenza vocale è stata senza pari; e così i suoi fiati. Il timbro brunito e scuro, con risonanze baritonali, s’accompagnava in lui allo squillo; la ricchezza degli armonici lo rendeva sempre pastoso; e la sua pronuncia della parola è incisiva come in pochi altri artisti del canto. Possente e luminoso, il suo Moro di Venezia; ma quanto scavato drammaticamente. Del Monaco indaga sulla follia che nel soldato si manifesta e la mostra ( Sì, pel ciel marmoreo giuro, dall’eroismo internamente minato); e sa far ripiegare la voce verso un dolente piano quand’egli muore, dopo averlo fatto virilmente singhiozzare senza singhiozzo in Dio, mi potevi scagliar. Nel ruolo nel quale Mario Del Monaco è stato più popolare occorre vedere anche la sua intelligenza e il suo scavo interpretativo.
Le sue qualità fulminarono Herbert von Karajan quando nel 1957 lo ebbe a Vienna protagonista del Dramma di Verdi; tanto da far sì che invano egli chiedesse all’artista italiano di voler interpretare con lui il ruolo di Tristano di Wagner. Mario non accettò, ma non per difficoltà di lingua: riteneva piuttosto ch’esso, vocalmente massacrante com’è, andasse affrontato in fine di carriera, quando un artista si regge più sulla tecnica che sulla natura. Se lo avesse fatto avrebbe probabilmente impersonato l’eroe come l’Autore lo desiderava, ossia cantato all’italiana con sottolineatura del melos non meno che della parola. Anche il sommo soprano wagneriano Kirsten Flagstad avrebbe voluto incidere il primo atto della Valchiria con Del Monaco e il progetto non si realizzò. Com’è noto l’ultima incisione fatta da Karajan del Tristano e Isolda ha quale protagonista Jon Vickers, scomparso proprio pochi giorni fa: attissimo questo grande tenore, attissimo quale Florestan nel Fidelio; ma poiché Karajan ha anche inciso con lui l’Otello, dopo averlo fatto con Del Monaco, qui il canadese di fronte all’italiano scompare, e non solo per motivi di timbro. A Vienna si recò ad ammirarlo anche Kirk Douglas, e a ispirarsi a lui per l’interpretazione che avrebbe dovuto fare dell’eroe di Shakespeare.
Forse non s’è abbastanza messo in rilievo che anche quanto al timbro Del Monaco è un maestro. Egli lo modifica a seconda dello stile della parte e della psicologia del personaggio. Esempio meraviglioso è l’Ernani, da lui interpretato sotto la bacchetta del sommo Dimitri Mitropoulos: qui fattosi più leggero e trepidantemente vibrante: e ciò vale pure a sottolineare le sue qualità musicali, senza di che direttori incontentabili quali Mitropoulos e Karajan (ma anche gl’italiani prima nominati non erano affatto dolci di sale coi cantanti: tutt’altro) non gli avrebbero commesso tali responsabilità. Si può sostenere che Carlo Bergonzi fosse di lui ancora più musicista e che la sua ricerca interpretativa fosse ancora più sottile: ma siamo nell’ambito di grandezze incommensurabili. Certo è che se egli fu sommo tenore drammatico e riuscì meraviglioso anche come cosiddetto tenore lirico; se fu grande in Bellini come in Catalani come in Ponchielli, in Giordano come in Cilea come in Mascagni come in Puccini come in Bizet come in Leoncavallo (e qui non posso non ricordare che, prima d’interpretare Canio, cantava da baritono il Prologo!) come in Wagner (un Lohengrin più eroico che la tradizione non voglia): il suo autore è Verdi. In quanto verdiano ha onorato il nome italiano; e se trionfò persino al Bolshoi sotto il regime comunista, a me piace ricordare che venne insignito del prestigiosissimo Ordine di Lenin. In quanto verdiano si rese anche protagonista di rare riscoperte: al San Carlo, sempre sotto l’impareggiabile guida di de Fabritiis, interpretò lo Stiffelio quando questo capolavoro veniva appena riscoperto.
Del Monaco, uomo di singolare bellezza, era anche un artista figurativo; la sua cultura era superiore a quella di molti tenori, sebbene non paragonabile a quella di Lauri Volpi ch’è un grande scrittore. Ottimo scrittore è anche il grande baritono Giangiacomo Guelfi, ch’era laureato in giurisprudenza ed è scomparso nel 2012 senza che nessuno lo abbia ricordato. Leggo di lui un ricordo meraviglioso di Mario Del Monaco. Racconta di una prova della Norma in Brasile. «È venuto fuori e ha cantato tutta l’uscita del tenore. Non ho più sentito nessuno cantare così. Aveva una vocalità impressionante: tanta di quella voce, tanto di quel bronzo, tanti di quegli armonici... E una facilità... Rapiti i sensi (con il do) di voluttade e amor... Sotto con me c’era il coro che applaudiva in delirio. Era una cosa da lasciare tramortiti».
Il più grande soprano degli ultimi settant’anni è stata Anita Cerquetti, anch’ella scomparsa l’anno passato. Era Elvira nell’Ernani diretto da Mitropoulos. Ecco quel che delle recite (l’incisione di esse è una delle colonne dell’interpretazione verdiana) ci testimonia: «Mitropoulos era un direttore diverso da tutti. Era impressionante il suo gesto con le mani. A Mario disse, senza averlo sentito, che nell’ultimo atto se l’avesse fatto piano sarebbe stato il non plus ultra, una cosa eccelsa. Mario rispose “Farò tutto il possibile” e ha fatto cose stupende cantando tutto in mezza voce, e che splendida mezza voce. Per una voce come quella di Mario non era facile fare la mezza voce. Eppure lui alla morte di Ernani l’ha fatta, e così bella che io ero lì senza parole. Era magnifico. La sua recitazione era grandiosa, espressiva, magnetica, talmente espressiva e partecipata che quando usciva dal palcoscenico era madido di sudore. Per prima cosa colpiva il suo viso, poi gli occhi, poi le mani che aveva stupende e che sapeva usare molto bene facendo sempre il gesto giusto al momento giusto. Gli bastava muovere un dito ed era già in scena. Mario è stato un Ernani eccezionale, penso l’unico vero Ernani».
Negli intervalli delle Opere Del Monaco in camerino ripassava la parte spartito alla mano, tanto era perfezionista. Nei confronti dei colleghi (colla sola Maria Callas ebbe un difficile rapporto) era affettuoso, cameratesco, pieno di gentilezza e di attenzioni: spianò a Carlo Bergonzi la via del Metropolitan cedendogli due proprie recite e dicendogli: «Carlo, se canti così in America pianti un chiodo!». Piacque anche ai Santi: era il tenore preferito di Giovanni XXIII.
Famoso in tutto il mondo, era l’interprete preferito di Papa Giovanni XXIII Il personaggio Uomo di singolare bellezza, era anche un artista figurativo