Ilva senza soldi Riesplode il caso
Nel mirino le garanzie di Roma su prestiti per centinaia di milioni: «Ci sono ricorsi»
Per l’Ilva di Taranto e di Genova, 14.200 dipendenti diretti e altri ottomila nell’indotto, sono tornati tempi terribili. L’azienda sta ingaggiando la sua battaglia finale per la sopravvivenza. Nel 2015 brucerà oltre mezzo miliardo di euro, e ormai fatica a far fronte ad alcune delle spese essenziali. Ma i guai arrivano anche dalla Ue.
Milioni Le perdite dell’Ilva quest’anno, dovute anche al crollo dei prezzi dell’acciaio la loro conversione in obbligazioni di una società fallita». Quali che siano gli indizi a carico, in effetti i due fratelli Riva non sono ancora neppure rinviati a giudizio. Il sequestro dei loro fondi non era il vanto di uno Stato capace di garantire i diritti di proprietà di qualunque investitore, anche discutibile, finché provato colpevole.
Nell’immediato, il rifiuto opposto dalla Svizzera avrà almeno una conseguenza: cambiare la legge di Stabilità votata in Senato dieci giorni fa. L’articolo 489 della manovra prevede infatti Milioni di tonnellate La capacità produttiva annua del gruppo Ilva una garanzia dello Stato italiano «esplicita, incondizionata e irrevocabile» su prestiti per 800 milioni che l’Ilva commissariata avrebbe potuto chiedere alle banche in attesa di ricevere i fondi dei Riva. Ora che non arriveranno, non è scontato che lo Stato possa garantire le banche sulla base di una rete di sicurezza che non c’è più. In parte, è quanto sta già succedendo: a fine aprile il ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan ha firmato un decreto con cui garantisce un altro prestito da 400 milioni di Cassa depositi e prestiti, banca Intesa Sanpaolo e Banco popolare all’Ilva, sempre coperto dai fondi di Emilio e Adriano Riva che sarebbero dovuti arrivare.
Ora quella garanzia pubblica a vantaggio dell’Ilva sta attirando l’attenzione di Bruxelles. «La Commissione europea ha ricevuto ricorsi riguardo a possibili misure pubbliche a favore dell’Ilva, che stiamo valutando» dice la portavoce del commissario europeo alla Concorrenza Margrethe Vestager. Secondo almeno tre persone coinvolte, sarebbe ormai matura Mila e 200 I dipendenti dell’Ilva. Di questi, ottomila sono impiegati nello stabilimento di Taranto, duemila invece a Genova la decisione di aprire una procedura per aiuti di Stato contro l’Italia. La Commissione starebbe valutando anche l’eventualità di ingiungere l’interruzione immediata del sussidio, con il rischio di bloccare l’attività dell’Ilva. A Bruxelles si ricorda che le regole comunitarie proibiscono aiuti di Stato a operatori cronicamente in perdita, e Ilva sta bruciando cassa per 50 milioni al mese dopo aver perso 2 miliardi dal 2012 all’anno passato. Non sempre in realtà le norme vengono applicate con intransigenza: la tedesca Salzgitter ha ricevuto ripetuti aumenti di capitale dal suo azionista di controllo, il Land della Bassa Sassonia, e nel 2002 i Chantiers de l’Atlantique furono salvati con 650 milioni dal governo di Parigi senza contraccolpi traumatici. Ma a Bruxelles si è sempre più convinti che, «in linea di principio», nessuna azienda debba essere tenuta artificialmente in vita usando il denaro dei contribuenti. Da parte di ArcelorMittal e altri concorrenti europei, la pressione sulla Commissione perché stacchi la spina all’Ilva è fortissima: significherebbe togliere dal mercato fino a 11 milioni di tonnellate di potenziale produzione, metà del surplus europeo in certe linee di prodotto. A Bruxelles si vedrebbe di buon occhio una cessione del gruppo, magari a pezzi, ma è quasi impossibile: nessuno al mondo, neanche gratis, comprerebbe un impianto al 78% sotto sequestro della magistratura italiana. Poco importa che un’Ilva risanata sarebbe anche troppo competitiva per i suoi avversari.
Massimo Rosso e Aldo Ranieri, operai degli altiforni di Taranto, si accontenterebbero di molto meno. Per ora — dicono — basterebbe che l’azienda fornisse guanti, maschere protettive e tute ignifughe nuove quando serve. L’Ilva, oggi, non ha cassa neanche per questo.