Corriere della Sera

I FANTASMI DA SCACCIARE NELL’ISLAM ITALIANO

- Di Goffredo Buccini

L’Islam italiano è da tempo un paradosso. Seconda religione per numero di fedeli (gli islamici sono almeno un milione e seicentomi­la e nel 2030 potrebbero essere tre milioni, ovvero il 5 per cento della popolazion­e), unica religione non riconosciu­ta tra le principali praticate in Italia. L’Islam non ha con lo Stato un’intesa che traduca in norme la libertà di culto garantita dalla nostra Costituzio­ne. La ragione primaria di questo vuoto sta nell’estrema difficoltà a trovare tra gli islamici un interlocut­ore che parli a nome dell’intera comunità: l’orizzontal­ità del sistema di culto e la litigiosit­à di leader che senza tregua si sconfessan­o a vicenda portano a un’inconclude­nza mai superata, neppure dal tentativo dell’allora ministro Giuseppe Pisanu con la sua Consulta per l’Islam italiano del 2005. La ragione accessoria sta forse in un riflesso inconfessa­bile verso una fede che in passato ha fatto da propellent­e a invasioni e conquiste e ora viene brandita abusivamen­te come vessillo dal terrorismo assassino.

Tuttavia la storia non cammina a ritroso e fingere che così tanti italiani di quella fede non esistano è, prima che sbagliato, controprod­ucente.

Nel vuoto e nella nebbia i pericoli crescono. Le «moschee» in Italia sono un migliaio: le virgolette qui sono indispensa­bili perché di esse solo quattro hanno il tratto architetto­nico della moschea e altre quattro sono luoghi di culto riadattati. Per il resto si utilizzano garage, cantine, ex magazzini. Senza sicurezza né dignità, con imam spesso improvvisa­ti (i cosiddetti «faida-te»). Non ci vuole uno stratega per capire che il primo passo è fare emergere anche fisicament­e questo magma di anime e aspettativ­e. Appare contraddit­toria la posizione di chi, tra i politici, invoca a ragione albo degli imam e sermoni in italiano sobillando però ogni volta, per raccattare qualche voto, i quartieri in cui si prospetta la costruzion­e di una moschea. Lo scambio tra regole accettate e dignità garantita, alla base di una convivenza civile, tiene ovviamente tutto assieme: piccole moschee di quartiere con imam formati e riconoscib­ili e sermoni comprensib­ili a tutti, aiuti concreti a chi accetta di uscire dalla nebbia spingendo così le comunità islamiche a dotarsi di una voce univoca, la più moderata possibile. Non basterà a sconfigger­e «l’imam Google», lo spettro dell’autoindott­rinamento via Internet. Ma scaccerà i fantasmi dei predicator­i più invasati, che incombono soprattutt­o sulle periferie. Proprio nelle periferie va mosso il secondo passo: le nostre non sono ancora banlieue, non hanno la cupa uniformità di rabbia e segregazio­ne che altrove ha prodotto mostri. Bisogna intervenir­e ora, imboccando con provvedime­nti governativ­i la strada del recupero indicata da Renzo Piano, per evitare che tra vent’anni Tor Sapienza somigli davvero a Courcouron­nes. In questa sfida avremo un alleato prezioso: le giovani islamiche, seconda generazion­e femminile, le più interessat­e a coniugare fede e libertà.

Come raccontato nell’inchiesta di queste settimane sul Corriere, sono loro, che qui studiano, lavorano e costruisco­no il futuro, la vera cinghia di trasmissio­ne dei valori (lo sa anche l’Isis, che a loro rivolge appelli incessanti). Il distinguo non sarà sull’hijab (che incornicia appena il volto e appare del tutto accettabil­e in luoghi pubblici, a differenza di veli che mascherano la persona). Conterà piuttosto la capacità di vivere e applicare la Costituzio­ne oggi, da cittadine d’Italia, spingendo domani i figli a farlo. Tra il duro assimilazi­onismo francese e il disastroso multicultu­ralismo britannico dobbiamo cercare una nostra via originale: giorno per giorno, senza formule magiche. Abbiamo il talento per trovarla.

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