Il valore pedagogico di una ricorrenza e cosa ha imparato mia figlia a 9 anni
Si è parlato, spesso con la giusta cautela, delle pratiche pubbliche di commemorazione. Non è detto che l’esercizio istituzionale del ricordo sia sufficiente, e non è neppure detto che sia benefico. Troppo spesso il ricordo per dovere civile si rovescia nella noia della ripetizione, quindi nel suo opposto, l’oblio. Dunque, come ricordare? È il tema di un saggio dello storico francese Georges Bensoussan uscito in Italia qualche anno fa. Il dibattito sulla memoria, o meglio sulla «moda» della memoria, affrontato con crescente interesse dagli anni Novanta in poi è sacrosanto: la memoria è un concetto troppo generico per accontentarsi di celebrarla una volta l’anno in relazione alla Shoah. Fatto sta che anche le ricorrenze, nei casi migliori, contribuiscono a sviluppare una «pedagogia» che non si accontenti di trasmettere emozioni o sentimenti vaghi, banalmente moralizzanti. Ho due figli ormai quasi trentenni che hanno frequentato le scuole negli anni Novanta. E ho una terza figlia di nove anni che fa la quarta elementare in un istituto pubblico non centrale di Milano. Ebbene, il confronto è schiacciante: la Giornata della Memoria, istituita nel 2005, ha enormemente accresciuto l’impegno degli insegnanti verso una seria trasmissione di conoscenze sullo sterminio nazista. Si dirà che è assurdo che ci sia voluta una decisione delle Nazioni Unite per attivare questa sensibilità, ma tant’è. Dico conoscenze, perché questa trasmissione passa spesso e volentieri, prima e dopo il 27 gennaio, per la lettura ad alta voce di brani di letteratura e di storia, per la proiezione di film e documentari, per la discussione collettiva e l’invito di continuare le riflessioni in famiglia. Questioni che Maria, come immagino i suoi compagni, ha trasferito ai suoi genitori con la curiosità (quasi concitata) di approfondire. Siamo troppo impegnati a dir male della scuola italiana per riuscire a coglierne i progressi e le aperture.