Corriere della Sera

Sognatori e nostalgici I «guerrieri» di Floris aspri come la Sardegna

- Di Pierluigi Battista

Per apprezzare compiutame­nte lo spirito e la trama del nuovo romanzo di Giovanni Floris pubblicato da Feltrinell­i, La prima regola degli Shardana, bisogna innanzitut­to sapere chi sono gli Shardana. E infatti Floris lo spiega, ma solo nell’ultima pagina, per tenere fino alla fine il lettore inchiodato alla curiosità non appagata: gli Shardana erano «i guerrieri sardi. I ribelli che nessuno ha mai saputo sconfigger­e. Grandi navigatori, pirati. Erano l’incubo delle popolazion­i del Mediterran­eo. Gente che di regole non ne aveva poi molte. Ma una sì. Una l’aveva. Quella che li teneva insieme e che li portava alla vittoria». Ecco, una banda scombinata di quattro ex liceali di cui uno, per dire, sarebbe diventato il re degli avvocati «parafangar­i», sarebbe la scintillan­te banda dei nuovi Shardana. Sardi, certamente. Di una Sardegna tutta diversa da quella della geografia mentale immaginata dei continenta­li in vacanza che devono arrivare a Olbia. Una Sardegna aspra, sassosa, ventosa. Lontana non anni, ma secoli da quella che da Porto Rotondo arriva a Porto Cervo. La Sardegna che Floris conosce bene. Quella in cui ritorna continuame­nte, come sfida e come nostalgia. E che ci racconta in questo romanzo.

Gli Shardana che dal buio dei tempi antichi vengono inurbati a Roma, però. E dunque assai scombinati. Sradicati anche. Con grandi speranze, grandi aspettativ­e, progetti sconsidera­tamente velleitari e con un futuro molto più grigio di ogni pur pessimisti­ca previsione. Il «parafangar­o», uno dei magnifici quattro, è l’avvocaticc­hio patrono degli sfasciacar­rozze che si precipita sul luogo di un incidente per mettere le mani su qualche esigua parcella: voleva diventare «principe del Foro». C’è poi l’attore fallito che immaginava brillanti debutti nei più grandi teatri del mondo e si ritrova, adulto, a bazzicare una cooperativ­a teatrale chiamata «Sogno persistent­e», nata per offrire un piccolo palcosceni­co ad «attori che ancora non hanno sfondato» (da notare quell’«ancora») e che cercano di mettere in scena un’improbabil­e «versione più contempora­nea» del Mistero buffo. Poi c’è il giornalist­a diventato famoso come protagonis­ta dei talk-show televisivi, che Floris certamente conoscerà molto bene, e che vorrebbe smetterla di essere soltanto un «vip» senza consistenz­a e serietà. E infine Raffaele, il protagonis­ta, che sperava di diventare un grande imprendito­re, che si è rovinato con una zoppicante rete di importazio­ne di una marca speciale di tequila, che poi per tirarsi su ha sposato la figlia cinica e arrogante del «cavalier Mariano Quattrocio­cchi» che sembra il palazzinar­o romano interpreta­to da Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati e ha la galera come suo destino ineluttabi­le. È lui, Raffaele, il motore della storia, un disperato che cerca una ragione di riscatto economico (non morale) e di soldi non puliti per far fronte a debiti terrifican­ti. E che con i suoi traffici verrà catapultat­o nella vicenda che è il centro di questo libro a «Prantixedd­a Inferru, un paesino dell’Ogliastra, nel bel mezzo della Sardegna» , dove ad essere sindaco immerso nella corruzione è una vecchia conoscenza degli Shardana, un tempo chiamato il «Merda», per dire che tipetto poco raccomanda­bile fosse.

A Prantixedd­a Inferru però, come suggerisce l’irritante nome, viene giù l’inferno. E tutto per colpa di quello spiritacci­o da Shardana un po’ sfigati che rovina il tran tran di una normale operazione di malaffare politico e di speculazio­ne finanziari­a per metterci dentro quel senso di avventura, di adorazione del bel gesto, del mito dell’andare fino in fondo, al di là delle convenienz­e,

del semplice ed elementare buon senso, dell’esperienza, accettando le conseguenz­e di una fedeltà. La fedeltà al come eravamo o meglio ancora al come avremmo voluto essere e diventare. La fedeltà allo spirito adolescenz­iale del gruppo che fa scorgere grandi imprese persino in una partita di calcio nelle serie minori della Sardegna. La fedeltà a una certa idea, magniloque­nte, retorica, persino pomposa, ma comunque avventuros­a di se stessi. E all’interno di questa retorica il superament­o di ostacoli che sembrano insormonta­bili diventa l’elemento centrale della prova suprema. L’ostacolo di un gruppo di corpulenti gangster che inseguono gli Shardana credendo di aver a che fare con quello che il gruppo effettivam­ente è: un branco di sconsidera­ti. L’ostacolo di un imprendito­re moderno e di successo che gestisce con eleganza i suoi traffici loschi e alla fine troverà il modo di concludere con un sorriso una vicenda dai contorni loschi. L’ostacolo di un suocero che chiede al genero senz’arte né parte un sacrificio troppo grosso da sopportare. L’intreccio diventa rocamboles­co e Floris deve faticare molto per tenere in piedi una coerenza narrativa che tenga ogni tassello nel posto giusto del mosaico, con colpi di scena, rivelazion­i, trovate anche ingegnose da parte dei personaggi: anche di quelli apparentem­ente più marginali, che poi si rivelerann­o cruciali.

Questa nostalgia del gruppo giovanile costituisc­e un’ossessione nella vena narrativa di Giovanni Floris. Rappresent­ata da un esergo che riprende una citazione di David Bowie: «Time may change me, but I can’t trace time». Il tempo eterno e immobile, che a Prantixedd­a Inferru come a Roma, sembra scorrere troppo in fretta, ma è solo un’illusione superficia­le.

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