Sognatori e nostalgici I «guerrieri» di Floris aspri come la Sardegna
Per apprezzare compiutamente lo spirito e la trama del nuovo romanzo di Giovanni Floris pubblicato da Feltrinelli, La prima regola degli Shardana, bisogna innanzitutto sapere chi sono gli Shardana. E infatti Floris lo spiega, ma solo nell’ultima pagina, per tenere fino alla fine il lettore inchiodato alla curiosità non appagata: gli Shardana erano «i guerrieri sardi. I ribelli che nessuno ha mai saputo sconfiggere. Grandi navigatori, pirati. Erano l’incubo delle popolazioni del Mediterraneo. Gente che di regole non ne aveva poi molte. Ma una sì. Una l’aveva. Quella che li teneva insieme e che li portava alla vittoria». Ecco, una banda scombinata di quattro ex liceali di cui uno, per dire, sarebbe diventato il re degli avvocati «parafangari», sarebbe la scintillante banda dei nuovi Shardana. Sardi, certamente. Di una Sardegna tutta diversa da quella della geografia mentale immaginata dei continentali in vacanza che devono arrivare a Olbia. Una Sardegna aspra, sassosa, ventosa. Lontana non anni, ma secoli da quella che da Porto Rotondo arriva a Porto Cervo. La Sardegna che Floris conosce bene. Quella in cui ritorna continuamente, come sfida e come nostalgia. E che ci racconta in questo romanzo.
Gli Shardana che dal buio dei tempi antichi vengono inurbati a Roma, però. E dunque assai scombinati. Sradicati anche. Con grandi speranze, grandi aspettative, progetti sconsideratamente velleitari e con un futuro molto più grigio di ogni pur pessimistica previsione. Il «parafangaro», uno dei magnifici quattro, è l’avvocaticchio patrono degli sfasciacarrozze che si precipita sul luogo di un incidente per mettere le mani su qualche esigua parcella: voleva diventare «principe del Foro». C’è poi l’attore fallito che immaginava brillanti debutti nei più grandi teatri del mondo e si ritrova, adulto, a bazzicare una cooperativa teatrale chiamata «Sogno persistente», nata per offrire un piccolo palcoscenico ad «attori che ancora non hanno sfondato» (da notare quell’«ancora») e che cercano di mettere in scena un’improbabile «versione più contemporanea» del Mistero buffo. Poi c’è il giornalista diventato famoso come protagonista dei talk-show televisivi, che Floris certamente conoscerà molto bene, e che vorrebbe smetterla di essere soltanto un «vip» senza consistenza e serietà. E infine Raffaele, il protagonista, che sperava di diventare un grande imprenditore, che si è rovinato con una zoppicante rete di importazione di una marca speciale di tequila, che poi per tirarsi su ha sposato la figlia cinica e arrogante del «cavalier Mariano Quattrociocchi» che sembra il palazzinaro romano interpretato da Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati e ha la galera come suo destino ineluttabile. È lui, Raffaele, il motore della storia, un disperato che cerca una ragione di riscatto economico (non morale) e di soldi non puliti per far fronte a debiti terrificanti. E che con i suoi traffici verrà catapultato nella vicenda che è il centro di questo libro a «Prantixedda Inferru, un paesino dell’Ogliastra, nel bel mezzo della Sardegna» , dove ad essere sindaco immerso nella corruzione è una vecchia conoscenza degli Shardana, un tempo chiamato il «Merda», per dire che tipetto poco raccomandabile fosse.
A Prantixedda Inferru però, come suggerisce l’irritante nome, viene giù l’inferno. E tutto per colpa di quello spiritaccio da Shardana un po’ sfigati che rovina il tran tran di una normale operazione di malaffare politico e di speculazione finanziaria per metterci dentro quel senso di avventura, di adorazione del bel gesto, del mito dell’andare fino in fondo, al di là delle convenienze,
del semplice ed elementare buon senso, dell’esperienza, accettando le conseguenze di una fedeltà. La fedeltà al come eravamo o meglio ancora al come avremmo voluto essere e diventare. La fedeltà allo spirito adolescenziale del gruppo che fa scorgere grandi imprese persino in una partita di calcio nelle serie minori della Sardegna. La fedeltà a una certa idea, magniloquente, retorica, persino pomposa, ma comunque avventurosa di se stessi. E all’interno di questa retorica il superamento di ostacoli che sembrano insormontabili diventa l’elemento centrale della prova suprema. L’ostacolo di un gruppo di corpulenti gangster che inseguono gli Shardana credendo di aver a che fare con quello che il gruppo effettivamente è: un branco di sconsiderati. L’ostacolo di un imprenditore moderno e di successo che gestisce con eleganza i suoi traffici loschi e alla fine troverà il modo di concludere con un sorriso una vicenda dai contorni loschi. L’ostacolo di un suocero che chiede al genero senz’arte né parte un sacrificio troppo grosso da sopportare. L’intreccio diventa rocambolesco e Floris deve faticare molto per tenere in piedi una coerenza narrativa che tenga ogni tassello nel posto giusto del mosaico, con colpi di scena, rivelazioni, trovate anche ingegnose da parte dei personaggi: anche di quelli apparentemente più marginali, che poi si riveleranno cruciali.
Questa nostalgia del gruppo giovanile costituisce un’ossessione nella vena narrativa di Giovanni Floris. Rappresentata da un esergo che riprende una citazione di David Bowie: «Time may change me, but I can’t trace time». Il tempo eterno e immobile, che a Prantixedda Inferru come a Roma, sembra scorrere troppo in fretta, ma è solo un’illusione superficiale.