Don Sotgiu, che da ragazzo fu indagato per il caso Macchi: «Mai fornito alibi a Binda»
Non si nasconde, ma il cellulare squilla a vuoto, risponde solo ai numeri che conosce, dice un suo parrocchiano. In canonica riferiscono che non c’è, che «è da un po’ che non si vede». Dopo giorni d’insistenza e chiamate a vuoto, don Giuseppe Sotgiu, forse per errore, risponde. Parla del delitto di Lidia Macchi e di Stefano Binda, presunto omicida della ragazza. «Non credo assolutamente a tutta questa storia, neanche un po’. Conosco Stefano da quando avevo dieci anni: stanno inventando un mostro. La sua vita, forse, non è delle più lineari, ma questo non lo fa diventare un assassino».
Il nome di don Giuseppe Sotgiu è finito nelle carte dell’inchiesta sull’omicidio della studentessa di Cl perché, scrive il Gip nell’ordinanza, «si sarebbe adoperato per offrire un alibi sicuro al presunto killer»: una vacanza studio a Pragelato. Sei giorni di vita comunitaria con un gruppo di ragazzi di Gioventù Studentesca in un hotel della Val Chisone, la Casa Alpina don Barra. Nell’albergo, però, del suo passaggio non ci sono tracce. Il registro degli ospiti, ha spiegato il sacerdote che gestiva la struttura, non c’è più. La stanza in cui il presunto killer ha detto di aver dormito è stata cancellata dai lavori di ristrutturazione. L’unica possibilità per verificare se il 5 gennaio di 29 anni fa Binda si trovasse o meno lontano dal luogo del delitto, sono le testimonianze di chi partecipò a quella vacanza.
«È un periodo lontanissimo — spiega don Sotgiu — e non sapevo tutto quello che faceva Stefano. Lui partecipava agli incontri di Gs, io facevo già l’università, quindi avevamo riferimenti diversi. La vacanza a Pragelato? Sinceramente non ricordo». Nei giorni scorsi il nome di don Sotgiu è finito su tutti i giornali, lui ha deciso di non leggerli. L’eco di quello che il prete definisce un «bailamme di notizie impressionante» è arrivato anche nella parrocchia torinese in cui risiede (San Benedetto Abate), «ma in forma privata, senza incarichi pastorali. E ringrazio Dio, in questo momento, di non essere esposto come persona pubblica, altrimenti non saprei cosa spiegare a chi dovesse ricevermi come sacerdote». Ma se accadesse, se fosse ancora parroco direbbe «che non c’entro niente, che non ha senso dire che ho creato un alibi a Binda, visto che sono stato io a chiamare Stefano dentro questa situazione».
Era il 1987, un mese e mezzo dopo il ritrovamento del corpo della studentessa il sacerdote, ai tempi ancora laico, venne interrogato dagli inquirenti. «Ero indagato — spiega don Sotgiu —. Avevo ricevuto un avviso di garanzia, anche se allora, a 20 anni, non sapevo neppure cosa fosse. Avevo nominato un avvocato, mi avevano prelevato il Dna, mi chiedevano cosa avevo fatto quella sera e io ho cercato di ricostruirlo. Dissi che probabilmente mi trovavo con Stefano e un altro amico». Eppure, gli inquirenti sarebbero convinti che il sacerdote abbia coperto quello che il gip ha definito il suo «amico del cuore», tant’è che non è escluso che nei prossimi giorni il sacerdote possa essere ancora interrogato. E la cena a casa dei Macchi? La mamma di Lidia ha riferito che Sotgiu e Binda mangiarono da lei la sera del funerale della figlia: «Andammo il pomeriggio con il gruppo di Cl a casa sua e sinceramente non ricordo neanche se Stefano fosse lì, ma se era lì è possibile che fosse venuto con me in macchina perché siamo dello stesso paese. La cena, invece, no. Quella non me la ricordo».
In realtà fui io a chiamare in causa Stefano ma a questa storia non ci credo, stanno inventando un mostro