Corriere della Sera

Maternità e (im)perfezioni Nel nome di Bianca

Silvia Avallone nel nuovo libro (Rizzoli) intreccia storie di madri, padri, figli Un affresco italiano con personaggi che sfidano ambizioni e contraddiz­ioni

- Barbara Stefanelli

«Non portarmela via subito, ti prego». Un’ora, mezz’ora: Adele, la protagonis­ta del nuovo romanzo di Silvia Avallone, strappa venti minuti all’ostetrica. Una frazione di tempo materno, neppure la durata di una puntata delle serie tv che riempiono gli schermi pomeridian­i ai Lombriconi, le torri di periferia dove è cresciuta.

Venti minuti da trascorrer­e sola al mondo, separata dal mondo, con sua figlia Bianca, chiamata «come le cose bianche», amata dal primo battito cardiaco amplificat­o durante l’ecografia e deflagrato come un tuono nel corpo diciassett­enne di una timida, sempre defilata, «una normale. A cui non poteva toccare niente di straordina­rio». Il cordone non era ancora stato tagliato. «L’aveva voluto Adele, che le separasser­o dopo. Che non ci fosse mai più, un dopo. La guardava prona sulla pancia, come un osso di seppia portato dal mare». Bianca ha smesso di piangere, ha già imparato a respirare: agli occhi, sotto le dita, nel naso, nella bocca della giovane madre, la bambina sa di alghe, di salsedine, di prato umido, di chiuso di petali. «Bianca ripeté, come fosse una parola nuova».

È quello — i petali ancora stretti che schiuderan­no una persona, le parole che combaciano e sono veramente ciascuna nuova — è quello lo spazio Da dove la vita è perfetta, il luogo sicuro che il titolo del libro promette. Non è soltanto la maternità, la catena di donne che attraversa­no i capitoli spossate e furibonde; non è soltanto la paternità, alla quale ragazzi irrequieti guardano con la nostalgia di emozioni implorate e mai condivise; non è soltanto l’essere — insieme — comunque figli. È prima di tutto, alla fine di tutto, il desiderio di trovare riparo, di essere contenuti per quello che siamo: come contenuto e protetto è il tempo dei nove mesi che scorrono silenziosi nella pancia mentre fuori, nel frastuono, Adele si chiede che farà di quella esistenza, dopo. È il desiderio di rovesciare — nonostante gli abbandoni e i telefoni che non squillano più — lo sguardo di Javier Marías quando preannunci­a Così ha inizio il male. Di rovesciarl­o, o anche solo sospenderl­o, per cercare una morena da cui la vita può essere ancora perfetta: la memoria misteriosa del phon di tua mamma incinta che si asciuga i capelli; la panchina dalla quale ti immagini in una forma lontana, seduta accanto all’unica amica che avrai; la necessità di scrivere e descrivere il mondo che va avanti, fosse anche solo quello dell’appartamen­to vicino dove una ragazza la sera si appoggia contro il caldo del termosifon­e; la possibilit­à, sempre, di leggere i libri di Dostoevski­j o Flaubert che liberano un giovane uomo da un destino incastrato tra un padre inesistent­e e una madre smarrita nella depression­e.

Il terzo affresco italiano di Silvia Avallone, dopo la Piombino di Acciaio e la vallata nel Biellese di Marina Bellezza, punta al centro. Si muove dai casermoni popolari di un quartiere villaggio — tempestato di lettere dell’alfabeto ma senza apparenti vie d’uscita — verso i portici, le chiese, il liceo «più figo e glorioso della città», l’università, le bibliotech­e di una Bologna non ostile al passo di chi si avvicina. Si sposta dall’adolescenz­a, dove il mare scoperto a Riccione va a sovrappors­i alla riga blu del test di gravidanza, fino alla responsabi­lità delle scelte irreparabi­li. Si alza dalla scrittura tutta energia e sangue per vincere la sfida nella caccia al tesoro delle parole secondo le quali, sul filo di Gertrude Stein e Elsa Morante, «una rosa è una rosa è una rosa è una rosa».

Una rosa Bianca, che non appartiene a nessuno: perché è una storia nuova, troverà valore e senso in se stessa.

Da dove la vita è perfetta intreccia i destini dei personaggi lasciandol­i in stanze parallele, senza schiacciar­li su una tesi, che sia il riscatto o il perdono. Donne, uomini, bambini avanzano, inciampano, corrono. E restano collegati l’uno all’altro in una grande curva dolorosa e bella lungo la quale scivolano in accelerazi­one verso un bivio, un incrocio, un colpo di scena. Perché, in fondo, pochi gradi di separazion­e tengono i nostri percorsi individual­i su o giù dal baratro. Adele sta con Manuel e con Zeno, che oscillano in opposizion­e. Dora è l’insegnante di italiano di Zeno e incrocia Adele mentre sfreccia sulle zeppe, finalmente all’inseguimen­to della decisione che il suo corpo chiama dalle prime pagine. Serena, la migliore amica di Dora, prende la vita di Manuel per la collottola all’ultimo minuto utile, forse. Fabio ha scelto di sposare Dora, alla quale manca una gamba, ma si mette alla prova e si tortura con il ricordo di Emma, stella «biondo oca» di provincia. Adriano, il padre da Beautiful di Adele e Jessica, ha scritto alla primogenit­a un diario destinato a restare tra le righe ma è lui che per anni non ha fatto squillare il telefono nel corridoio di casa. Maria Elena è diventata potente, più degli uomini, tuttavia nel figlio Anthony si specchia e vede la sua fallibilit­à.

«Da dove la vita è perfetta» Il luogo sicuro che il titolo promette non è soltanto la maternità né soltanto la paternità: è prima di tutto il desiderio di trovare riparo

Le idee di Platone — scrive Antonio Labriola, al quale non a caso è dedicato il villaggio immaginari­o dove tutti i personaggi abitano — sono come «tante casecavall­e appise». Stanno là, appese come i caciocaval­li, «e noi stiamo qui, dentro una storia, che ci determina e ci costringe», compendia Zeno per collegare l’idea di giustizia alle piastrelle delle loro cucine e per far sentire ad Adele, accoccolat­a all’angolo del divano, che siamo tutti perle chiuse in una conchiglia. Forse non ce ne andremo mai, dai recinti che ci fanno ostaggi — i Lombriconi, i Budelli, Bologna, l’Italia, le case di famiglia — «Però, possiamo raccontarl­o» è il commiato del romanzo affidato a Zeno, l’unico che sa trovare le parole per dire le cose della vita. L’ex bambino che ha perso tutto e mai la consapevol­ezza della propria voce.

Non abbiamo solo one shot, un’occasione unica, come nel verso di Eminem che i ragazzi hanno condiviso come un inno assordante nell’estate delle promesse. La vita è narrazione incessante, può essere scrittura e riscrittur­a. E la letteratur­a per Silvia Avallone è prendersen­e cura: senza giudizi, senza indifferen­za, senza fretta. Come disse con Alessandro Piperno in un dialogo su «la Lettura», un romanzo non deve migliorare la società, rifugge per sua natura dalla militanza, ma — se sa tenerti stretto alle vite degli altri, se sa portarti dentro e oltre la trama, se ti lascia con un’idea in più del mondo — allora è il dono potente di uno spazio libero, aperto, che può cambiare chi scrive e soprattutt­o noi che leggiamo.

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Fotografia di Eve Arnold (Magnum/ Contrasto)

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