Corriere della Sera

India, l’amore e l’anima

Dieci giorni tra i palazzi di Jaipur, la maestosa bellezza del Taj Mahal e l’incredibil­e Varanasi, città sacra degli induisti: veniteci con il «Corriere»

- Michela Mantovan

Prima o poi bisogna andarci. Nel gomitolo di strade che è la nostra vita una conduce certamente lì, nel cuore del gigante sacro dove si parlano tutte le lingue e si adorano tutti gli dei. Eppure l’India e il suo miliardo e mezzo di abitanti è un Paese che appare straordina­riamente unito, come se tutte le sue diversità avessero formato una specie di cemento culturale.

Alcuni anni fa, ricordo, ero su un pullmino in viaggio per Agra, l’antica capitale, quando la mia guida, vagamente annoiata, decise di rompere il silenzio e di farmi una domanda invece di limitarsi a resistere al fiume in piena delle mie curiosità. «Sai perché siamo così diversi da voi?» «Non sono certa, ma…» «Il vero motivo è uno solo. Perché nessuno qui prova invidia. È impossibil­e, non è prevista dalla nostra religione. Qualunque essa sia». Non credo fosse un elogio del sistema delle caste, uno degli aspetti più scioccanti della visione dell’esistenza indiana, ma solo una presa d’atto di come induismo, buddismo e giainismo abbiano in quale modo levigato l’anima delle persone. Ed è proprio l’anima insieme con l’amore e il rapporto con la morte uno dei pilastri sui quali si regge questo viaggio, che da Delhi al Rajasthan di Jaipur ci porterà all’Uttar Pradesh di Agra e Varanasi. Basta per dire di essere stati in India? Sì, perché seguendo il percorso è possibile attraversa­re le più importanti tappe della grandiosa storia di questo popolo. Il primo ministro Narendra Modi, 67 anni, provenient­e dal Gujarat, esponente del Partito popolare indiano, incarna in qualche modo le diversità del Paese: fiero nazionalis­ta, è figlio di un venditore di tè e appartiene a una delle caste più basse, i ghanchi.

Nuova Delhi, punto di partenza del viaggio, porta ben impressi i segni delle diverse vite vissute all’ombra dei secoli: dai fasti islamici alla storia moderna, quella tormentata ed eroica scritta da Gandhi e da chi l’ha seguito alla guida del sub continente. Jaipur è la porta del Nord, costruita dal re astrologo Sawai Jai Singh. Imperdibil­e la visita alla Fortezza di Amber, ma pure la «città rosa» ha moltissimo da offrire. Il Palazzo dei venti e il Palazzo di città, certo. E naturalmen­te l’atmosfera genuina e caotica della sua vita di strada.

Tuttavia, inutile negarlo, i due gioielli del viaggio sono Agra e Varanasi. E qui si tocca il cuore dell’India, quella prossimità mai così riuscita in altri posti del mondo tra l’amore e la morte.

È per ricordare l’amatissima Mumtaz Mahal, moglie prediletta morta dando alle luce il quattordic­esimo figlio, che Shah Jahan, incanutito dal dolore in una sola notte, decise di imbarcarsi nella costruzion­e di questo splendido mausoleo costato 22 anni di lavori e una cifra spaventosa. Arrivarono architetti e maestranze da tutta l’Asia e persino dall’Europa per realizzare quella che il poeta Rabindrana­th Tagore definì «una lacrima sul volto dell’eternità». Alla fine, il sovrano divenuto folle per amore, fu incarcerat­o da uno dei figli, deciso a impedire che la romantica vocazione paterna mandasse in rosso le casse dell’impero. La leggenda vuole che Shah Jahan sia stato rinchiuso nel forte di Agra e che gli sia stato consentito di affacciars­i a una finestra dalla quale poter contemplar­e il suo capolavoro, il Taj Mahal.

Se al mondo esiste una porta di accesso all’aldilà, questa è Varanasi, l’incredibil­e città sacra induista, che continua a esistere (e a essere ricostruit­a) da millenni sulla riva del Gange. Solo morendo qui si ottiene la moksha, la liberazion­e dal ciclo delle reincarnaz­ioni, la peggiore iattura possibile secondo gli indù. Dalla grande madre (questo significa Gange) è possibile assistere alle cremazioni che si svolgono sui Ghat, i punti di accesso al fiume. È una fabbrica della morte, Varanasi, ma in qualche modo anche un assaggio di un paradiso possibile, illuminato dai fuochi delle pire e da quelli sacri accesi dai bramini che danzano e pregano ogni sera al tramonto.

C’è un libro che vale la pena di leggere prima di mettere piede in questo luogo, «Amore a Venezia. Morte a Varanasi» di Geoff Dyer. Pochi come lui hanno saputo descrivere cosa si prova: «La storia di Varanasi è la storia di un continuo radere al suolo e ricostruir­e, radere al suolo e ricostruir­e. Non appena ricostruit­a sembra già sul punto di crollare. Ogni atomo di aria è saturo di storia che non è nemmeno storia, mito, perciò un tempio costruito oggi, da un giorno all’altro sembra essere lì dall’alba dei tempi. Ogni mattina è l’alba dei tempi, scrisse sul taccuino. Ogni giorno è la totalità del tempo».

Non è un caso che Sarnath, culla del buddismo, sorga a una manciata di chilometri: qui nel 527 a.C. il Buddha cominciò la predicazio­ne che l’avrebbe portato a percorrere tutte le strade dell’Asia con un messaggio di pace e tolleranza straordina­rio.

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