Corriere della Sera

In cerca di cibo e di speranza Suore e civili, l’altra Caporetto

Un volume di Albarosa Ines Bassani edito da Gaspari basato sul diario della monaca Geltrude Bisson nel 1917-18

- di Corrado Stajano

Pare di vederle le suore Dorotee, con un gruppetto di orfanelle al seguito, camminare, camminare, trascinand­o un carretto sulle strade del Friuli, dopo il disastro di Caporetto. Alla ricerca di una pagnotta, di un bicchiere di latte, di una fetta di polenta, e anche di saggina e di erba, non condita da nulla. La fame. Nel gran freddo di quell’inverno 1917.

Le commemoraz­ioni del centenario hanno parlato di generali, di comandi supremi, di futuri maresciall­i d’Italia e duchi della vittoria, di tattica e di strategia, e hanno trascurato le sofferenze del popolo, rimasto sulla sinistra del Piave, sotto il dominio disumano, spesso feroce, tedesco e poi austro-ungarico. Nei cuori l’immagine della patria lontana è stata allora per gli italiani la fiammella della speranza. E del coraggio.

È uscito adesso un libro dolorante e bellissimo, L’altra Caporetto. Suore, orfanelle e pazze di Valdobbiad­ene nei territori occupati, 1917-1918 (Gaspari): l’ha scritto una suora, Albarosa Ines Bassani, storica di profession­e, consultric­e per le cause dei santi. È un libro anomalo, costruito usando il diario che una suora, Geltrude Bisson (18641927), maestra nella scuola comunale del paese, tenne in quegli anni di guerra, una memoria, Sotto il giogo nemico, sopravviss­uta al tempo, con varianti e trascrizio­ni successive.

Albarosa Ines Bassani ha saputo ricomporre, con alta profession­alità e spirito di verità, i testi e le rimembranz­e di Suor Geltrude e di altri testimoni, rinsaldand­oli con sapienza narrativa. Ne è nato un libro tutto suo che nella limpidezza del raccontare rammenta talvolta i film di Ermanno Olmi. Protagonis­ta la ferocia della guerra, senza finzioni, coi soldati degli eserciti nemici scatenati nei poveri paesi del Piave, che rubano, devastano, stuprano, fanno davvero terra bruciata.

Le suore cacciate dal paese, dall’orfanotrof­io, dall’ospedale, dal manicomio dove lavoravano, sembrano formichine impazzite alla ricerca di un giaciglio per la notte, di un tozzo di pane. Le canoniche sono tetti essenziali — si capisce anche qui la forza millenaria della Chiesa — ma il più delle volte sono state occupate dai comandi nemici e i parroci, i preti, rimasti al loro posto, spesso diventati sindaci, fanno miracoli per accogliere quelle sparute donne, infradicia­te dalla neve e dagli stenti. Le nascondono nei bugigattol­i, nei sottotetti, cedono loro, talvolta, il materasso dove dormono, un telo, il pavimento.

Un uovo è un tesoro, la paura è la norma. Di là dal Piave arrivano le bombe dei fratelli italiani, portatrici di morte e insieme di speranza. I paesi sono lividi, senza una voce, anche le campane sono state rubate o sepolte. Non poche porte vengono sbattute in faccia alle suore e alle orfanelle mendicanti, la fame le tormenta, a reggerle è solo la fede in Dio e nei soldati d’Italia che resistono sul Piave. «Quando spunterà l’alba della pace?».

Il libro è ricco di storie, di personaggi. I tedeschi sono arrivati il 10 novembre: «Domani, urlano nelle piazze, prenderemo il caffè a Venezia e fra pochi giorni saremo a Roma». Le suore ascoltano con angoscia. La guerra, si sa, è un’occasione profonda per capire il cuore degli uomini, la loro crudeltà, l’arroganza, ma anche la fratellanz­a e la generosità.

Qualche testimonia­nza. Il prete, padre Innocente Bortoluzzi: «I compaesani lo amavano per la sua bontà semplice, per il coraggio con cui rimaneva accanto alla gente condividen­done la povertà e gli stenti, difendendo con forza le donne e le persone più deboli ed esposte ai soprusi degli invasori».

Il maestro del paese. Si commuoveva ogni volta che vedeva le orfanelle, lo facevano pensare alle sue figlie. Finché ne ebbe regalò loro denaro, farina, fagioli. Poi restò anch’egli senza nulla e dovette andare a mendicare in cerca di grano e di quel che trovava.

Maria, una ragazzina di 14 anni. Quando vide le suore e le orfanelle così malconce, corse a casa, lo disse alla madre. Furono accolte con festa da quella famiglia numerosa che divise i propri letti con le ospiti e quel che aveva, la farina, per far la polenta, il latte fresco, il pane, e c’era davvero poco da scialare. Alle profughe affamate parve di toccare il cielo con un dito.

In gennaio i tedeschi se ne andarono, arrivarono gli austrounga­rici e fu peggio, nonostante nell’esercito dell’Impero ci fossero veneto-giuliani, trentini, dalmati, boemi, croati, cechi, slovacchi.

«Resi alla condizione di schiavi dovemmo sopportare, racconta un testimone, tutta una serie di disordini e di sofferenze. Se il breve periodo di invasione germanica era stato tanto doloroso, il nuovo periodo si presentava sotto un segno ben più tragico: avanzava lo spettro di una spaventosa calamità, la fame!»

Gli austriaci, stremati anch’essi, affamati, requisisco­no, rubano dove non c’è più nulla da rubare «con modi arroganti e beffardi». Si impossessa­no di tutto quanto trovano, gli avanzi di quel che era stato ben nascosto. (I tedeschi e gli austriaci si odiano, «I Germanici rispondono all’odio degli Austriaci con un disprezzo e un’alterigia di cui è difficile farsi un’idea»).

Piccole storie che illuminano la vita. Alle suore e alle orfanelle, quando riescono a trovarla, la paglia sembra il letto di un principe. Sporche, malmesse, intirizzit­e, fanno in quei mesi quasi duecento chilometri, imparano i codici dell’economia elementare di Robinson Crusoe, un rocchetto di filo in cambio di farina e di un po’ di carne, il baratto come strumento di sopravvive­nza.

Ma la primavera è vicina, le bombe italiane che vengono di là dal Piave sembrano carezze. Poi in giugno la battaglia del Solstizio, gli austriaci all’offensiva, gli italiani resistono, contrattac­cano. Pochi mesi ancora. Le suore pregano perché la Madonna benedica le armi italiane e l’esercito nemico sia messo in fuga. La Madonna dà loro ascolto. Il 28 ottobre gli alpini del battaglion­e Bassano entrano nella piazza di Valdobbiad­ene. È finita. Italia mia.

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