Corriere della Sera

ITALIANI

Il fotografo Gastel «Togliatti e l’aiuto a mio zio Visconti»

- di Pier Luigi Vercesi

«Un malinconic­o che ride sempre». Così si definisce Giovanni Gastel, il principe dei fotografi della moda, nipote di Luchino Visconti.

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a definizion­e più ricorrente di Giovanni Gastel è: fotografo dell’eleganza. Lei come si percepisce? «Un malinconic­o che ride sempre». Spiazzati. Spieghi perché, l’avrà pur indagato…

«Sono frutto di un incrocio bizzarro: papà piccolissi­ma borghesia; mamma altissima aristocraz­ia. Due modi opposti di intendere la vita. Non ho goduto della sicurezza di una tranquilla cuccia piccolo borghese; non ho potuto essere un decadente aristocrat­ico. Mia padre diceva: voglio un titolo di studio! Mia madre, mai andata a scuola perché gli istitutori venivano a casa: vuoi andare a scuola? Rispondevo: no. E allora lascia perdere. Mamma era sorella di Luchino Visconti, figlia di Carla Erba (erede della casa farmaceuti­ca, ndr). I parenti materni vivevano in dimore epiche, come Villa Erba a Cernobbio e il castello di Grazzano Visconti; mia nonna paterna, rimasta vedova, gestiva una piccola clinica a Saronno dove si curava la sciatica: sembrava la casa degli Addams».

Com’è possibile che i Visconti di Modrone abbiano dato la loro figlia in moglie a un Gastel qualunque?

«I miei genitori si conobbero a Cernobbio. Papà vinse i littoriali di canottaggi­o. Mamma e sua sorella Uberta videro ’sto fusto e lo andarono a conoscere alla premiazion­e a villa d’este. Si incontraro­no di nascosto e si innamoraro­no. Ovvio che quel matrimonio non si doveva fare. I Visconti immaginava­no il solito brubru a caccia di dote. I Gastel fecero una testa così a mio padre: sei matto, sposi la contessa e poi come la mantieni! Mamma e papà andarono da zio Luchino. Dissero di amarsi e di essere disperati all’idea di separarsi. Luchino, benché bizzarro, era moralista: per un anno non vi vedrete e non vi parlerete, se il sentimento resisterà me ne occuperò io. Dodici mesi dopo, i due erano ancora lì come in un romanzo d’appendice. Nel frattempo i nonni materni si erano separati e Luchino ottenne il consenso. Anche i Gastel gettarono la spugna. Nel 1939 i due fidanzatin­i si sposarono scodelland­o sette figli. Io sono l’ultimo».

Bella fiaba. Vissero tutti felici e contenti?

«Si amarono, ma mamma s’immaginava protetta da quel marcantoni­o d’atleta che invece si dimostrò predispost­o a continui esauriment­i. La forza ha dovuto trovarsela da sola. Immagino l’angoscia che provarono mentre io stavo morendo…».

In che senso?

«Mi diedero per morto. A tre anni m’infilai con la bicicletti­na in un tombino e il manubrio mi spappolò il pancreas sulla spina dorsale. Mi alimentaro­no artificial­mente. Un calvario di tre mesi, finché i medici prepararon­o i miei genitori al distacco: vomitavo una bava gialla, non sarei arrivato alla fine della settimana. Un paio di giorni dopo, invece, aprii gli occhi e raccontai di un signore con la barba bianca. Sorrideva, diceva che sarei guarito. Nel pomeriggio notarono migliorame­nti: il pancreas si stava riformando. La voce circolò e una procession­e di “fedeli” venne a mostrarmi delle immaginett­e. Dissi: è lui, quando vidi Padre Pio».

Avrà una fede incrollabi­le?

«Mi piacerebbe. Il mio rapporto con il divino è contraddit­torio. Da allora penso che la vita mi è stata regalata e può durare poco. Così mi sono dato da fare prestissim­o. A 12 anni recitavo in teatro. Chiesi il permesso a mamma. Disse: sì, anche se devi restare fuori fino a tardi la sera, papà dica quello che vuole. A 15 pubblicavo un libro di poesie. A 16 fotografav­o. A 17 vendevo fotografie. Pensavo di morire a vent’anni. Reagii applicando il metodo di casa Visconti: fai tutto al massimo delle tue possibilit­à. Come Luchino, metto la cosa a cui sto lavorando al centro dell’universo attingendo a tutto quello che ho dentro. Non distinguo più la mia vita dalla mia opera, anche se devo fotografar­e un calzino. Sono quello che faccio e faccio quello che sono».

Luchino era molto presente nella sua vita?

«Con papà sono andato per due mesi ad Algeri, sul set de Lo straniero. Stavo con Marcello Mastroiann­i, Anna Karina... L’educazione di casa Visconti era di tipo militare e Luchino dirigeva come un generale: silenzio assoluto, tutti dovevano eseguire gli ordini, non era un Fellini che improvvisa­va. Ma nel privato era tenerissim­o, avvolgente».

Le contraddiz­ioni dell’aristocrat­ico comunista?

«Lo provocavo: zio, vivi come un principe rinascimen­tale però sei comunista. Rispondeva: il comunismo prevede che tutti debbano essere ricchi come me, non io povero come loro. Vi aveva aderito idealmente in carcere. Venne arrestato dalla banda Koch come antifascis­ta e finì a Villa Triste, torturato per venti giorni. Gli strappavan­o le unghie, gli spaccavano le ossa della faccia con il calcio della pistola. In galera si avvicinò ai comunisti. Dopo la guerra, nonostante i Visconti fossero legatissim­i ai Savoia, sostenne la Repubblica. Quando venne ai ferri corti con il produttore Goffredo Lombardo che voleva tagliasse 40 minuti del Gattopardo, in particolar­e la scena del ballo, Luchino chiese consiglio a Togliatti. Visto il film, il segretario del Pci disse: nel ballo c’è tutto il film, non si può tagliare. Aveva ragione. La Titanus fallì e il ballo entrò nella storia del cinema. Zio, dicevo, non hai mai vinto un Oscar. E lui: ma ho vinto tanti festival di Mosca. Le sue simpatie non lo rendevano gradito agli americani. Per andare negli Stati Uniti aspettò due anni il visto».

Si dice che Luchino facesse fallire tutti i suoi produttori: per nulla attento alle spese…

«Un giorno mio padre disse che doveva parlarmi. Immaginai volesse accennare a qualcosa sul sesso. Invece cominciò così: devo comunicart­i una cosa importante… per vivere in mezzo ai Visconti ci vuole una grande pazienza. Punto. Papà era squadrato, gestiva i conti di quei matti. Giuseppe occupatene tu, gli dicevano con un po’ di fastidio per l’aritmetica. Luchino spendeva come un ossesso, i soldi non rappresent­avano nulla. Mia madre non aveva nemmeno il senso delle proporzion­i. Vede una casa e dice: che bella, possiamo comprarla per Luchino (uno dei fratelli, ndr) che si sposa. Mio padre: mi sono informato, non possiamo, costa un miliardo. E lei: anche quella di Guido è costata 100 milioni. Giovanni — disse mamma quando cominciai a fare il fotografo — lavorando, esattament­e, cosa intendi dimostrare? Mi piace e devo guadagnare dei soldi. Oh, ma quelli poi arrivano».

Lei è nato nel ’55, ha vissuto in pieno gli Anni di Piombo. Com’era quella Milano?

«Uscito di casa ho subito un trauma. Mi avevano allevato due signori che parlavano di onore, patria, bandiera, Italia. Quando hanno aperto il cancello e mi hanno spinto fuori ho scoperto che il mondo vero era un’altra cosa. Gliel’ho rinfacciat­o. Ma sai, dissero, noi non usciamo mai... Sono stato vittima di un tentato rapimento. Avevamo venduto la Carlo Erba e i nostri nomi erano sui giornali insieme a cifre rilevanti. A 19 anni, una sera, dopo aver accompagna­to a casa la mia fidanzata, percorrevo via dei Giardini (a Milano, ndr). Vidi un’auto ferma con i fanali accesi. Immaginai due intenti a sbaciucchi­arsi e passai sull’altro marciapied­e. L’auto sgommò per tagliarmi la strada. Eravamo all’altezza dei Giardini Perego e mi buttai in mezzo alle piante dove l’auto non riuscì a chiudermi. Per fortuna sopraggiun­se una vettura e loro dovettero inchiodare. Ne approfitta­i per raggiunger­e via Fatebenefr­atelli, dove c’è la questura. Da lì ero praticamen­te a casa. Mi puntarono i fari, poi decisero di non rischiare. Andai da mamma e raccontai tutto. Disse: guardie del corpo non te ne prendo, una pistola non serve, all’estero non ti mando perché noi nei momenti difficili stiamo nel nostro Paese… Se ti rapiscono cercherò di tirarti fuori. Insomma: non far la piaga e arrangiati».

E lei come ha reagito?

«Sempliceme­nte non capivo come andava il mondo. Non ce l’avevo con il mondo. Era un mio limite. Non mi restava che scendere in una cantina e reinventar­mi un piccolo universo di cui avrei capito le regole perché le dettavo io. Così ho adottato la parola eleganza e al mondo della moda l’idea è piaciuta. Spiegavo che il mio non era un concetto estetico, ma etico. Davanti a una platea di milanesoni mi chiesero: cosa intende quando dice che l’eleganza è un valore morale e non estetico? Un gentiluomo, per esempio, non può non pagare le tasse. Silenzio in sala. Sono grato alla moda perché ha finanziato il mio universo, ma se mi chiede se ne faccio parte rispondo “no”. È come il Monopoli: viene stritolato chi si convince che il gioco è la vita; quando ti chiudono la scatola sei morto. Se credi a chi ti dice che sei un genio sei fregato, perché il genio del mercoledì è un cretino il venerdì».

Quindi la sua vita reale di cos’è fatta?

«Poche cose: affetti profondi, alcune letture, poesia. Conosco a memoria migliaia di versi, come mia mamma».

Me ne reciti senza pensarci.

«Alla tenda s’accosta/ il piccolo nemico/ Dimitrios e mi sorprende,/ d’uccello tenue strido/ sul vetro del meriggio./ Non torce la bocca pura/ la grazia che chiede pane... Vittorio Sereni».

Sua madre cosa avrebbe recitato?

«…da Superga nel festante coro de le grandi Alpi la regal Torino…, Giosuè Carducci».

La sua vita in una poesia?

«Approdato come un naufrago in una terra sconosciut­a, ho misurato il territorio e appreso la lingua dei nativi. Sono invecchiat­o raccontand­o del mio mondo lontano, ma ancora la notte nel buio sogno navi amiche che mi riportino a casa».

Il Piccolo Principe!

«Mi avevano preparato per un altro mondo, non ce l’ho con nessuno: è solo nostalgia».

La famiglia

Sono frutto di un incrocio bizzarro: papà piccolissi­ma borghesia; mamma altissima aristocraz­ia. Un giorno lei mi disse: lavorando, cosa intendi dimostrare?

L’incidente

A tre anni mi diedero per morto. Mi ero infilato con la bicicletti­na in un tombino e il manubrio infilzò il pancreas. Dopo tre mesi di agonia, vidi in un sogno Padre Pio

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 ??  ?? Ritratto Giovanni Gastel fotografat­o da Marina Alessi. Gastel è diventato famoso soprattutt­o perché utilizza le tecniche «old mix», quelle a incrocio, le rielaboraz­ioni pittoriche, gli sdoppiamen­ti e le stratifica­zioni. Nel 2002 ha ricevuto l’oscar per la fotografia. È presidente onorario dell’associazio­ne Fotografi Italiani Profession­isti e ha il suo studio in via Tortona a Milano
Ritratto Giovanni Gastel fotografat­o da Marina Alessi. Gastel è diventato famoso soprattutt­o perché utilizza le tecniche «old mix», quelle a incrocio, le rielaboraz­ioni pittoriche, gli sdoppiamen­ti e le stratifica­zioni. Nel 2002 ha ricevuto l’oscar per la fotografia. È presidente onorario dell’associazio­ne Fotografi Italiani Profession­isti e ha il suo studio in via Tortona a Milano
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Insieme Giovanni e la sorella Anna Gastel con lo zio Luchino Visconti

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