Paolo, l’altra metà del tandem «Faceva film per essere amato»
Barricato in casa dopo l’incidente, seguiva il lavoro sul set da lontano
Aveva il timore che si potesse speculare sulla separazione forzosa da Paolo, loro che al cinema, dal 1960, hanno avuto una voce sola, fotogramma dopo fotogramma. Vittorio lo scorso anno non riuscì a salire sulle montagne piemontesi con Paolo, per Una questione privata. Ma il progetto apparteneva anche a lui, i dialoghi, la scelta dei luoghi e dei protagonisti. Tanto che si scelse la formula: un film di Paolo e Vittorio Taviani, regia di Paolo Taviani. E Paolo, minore di due anni, sopraffatto dal dolore ora vuole solo ricordare ciò che dicevano insieme, citando Tolstoj, quando gli chiedevano perché fate cinema? «Per amore, ed essere amati da persone che forse non incontreremo mai». Il cinema che al buio si nutre di desiderio e mistero.
Tre anni fa, dopo una cena in casa di amici, uscendo in pieno centro a Roma, Vittorio fu investito da un’auto. «Sentii un grande colpo alla schiena», ci disse. Quello che sembrava un incidente non così grave, innescò problemi neurologici su un fisico già provato da altre cose. Vittorio si barricò in casa, a due passi dall’orto Botanico, accanto a quella di un altro maestro del cinema, Bertolucci. Accettò di farsi vedere per parlare di Fenoglio, seduto accanto al piano in cui suonava Verdi le cui pagine, dalla Messa da Requiem al Macbeth, hanno accompagnato il loro cammino sullo schermo. La musica, scoperta grazie al Maggio Fiorentino, è la vita di due suoi figli, Giuliano compositore e Francesca al cello, poi c’è Giovanna, documentarista; eppure non vollero mai, lui e Paolo, fare una regia d’opera, benché invitati più volte.
In pubblico si fece vedere una sola volta, l’immancabile basco, alla Festa del cinema che aveva dedicato un omaggio ai fratelli. Per Vittorio, il Terzetto Lorenzo Richelmy, Valentina Bellè e Luca Marinelli in «Una questione privata» (2017), ultimo film dei Taviani, tratto dal romanzo di Beppe Fenoglio mondo in cui era cresciuto e aveva creduto «non esiste più». L’amarezza era ammantata dalla grazia che non l’ha mai abbandonato, così come le altre qualità in comune con Paolo: il rigore e la passione di un cinema non politico ma che ha una visione politica. «Volevamo inventare uno stile, conciliando il neorealismo di Rossellini alla finzione del linguaggio della lirica». Invece, smarrito dai nuovi demagoghi della politica, non ritrovava la forza dell’utopia. Con Paolo raccontava aneddoti. Zavattini: «Senza conoscerlo, bussammo alla porta della sua casa sulla Nomentana. Volevamo esordire con un documentario su San Miniato, dove siamo nati, ci disse: potevate telefonarmi prima! Se mi riassumete ciò che volete fare in tre frasi, funziona. C’era un forte antifascismo. Fu bocciato in censura: ordine pubblico. Un carabiniere annotò, figli di un bravo avvocato, sono due noti esistenzialisti sovversivi. Ci suggerì il titolo di un film successivo». Mastroianni: «In Allonsanfàn recitava in modo teatrale, non sapevamo come dirglielo, alla fine gli suggerimmo: pensa che stai camminando in piazza del Popolo. E lui, girata una scena, ci diceva di aver capito urlando: piazza del Popolo!». Vittorio parlava di un cinema evocativo, austero, viscerale, un’epicità semplice nutrita del grano dei campi toscani. Il confronto con la natura in senso leopardiano, il mare così presente, letteratura e classicismo, Pirandello, Boccaccio... «Maraviglioso» Vittorio.
Cito Tolstoj per ricordare quello che dicevamo insieme: facciamo cinema per amore ed essere amati da persone che forse non incontreremo mai Paolo