Corriere della Sera

Il nazionalis­mo (d’affari) di Donald scardina gli equilibri Con successo

- di Massimo Gaggi

In pochi giorni Donald Trump ha disarticol­ato il G7, ponte di comando dell’occidente, ha dichiarato guerra agli alleati europei e al Giappone sul commercio, ha umiliato l’amico della porta accanto, il premier canadese Trudeau, abbraccian­do, invece, il dittatore più feroce del mondo. Rocket man, il criminale squilibrat­o che, nelle parole di Trump, rischiava di portare il suo popolo all’annientame­nto, diventa partner coraggioso e affidabile, «uomo di talento che ama la sua gente, uno che mi piace».

È difficile abituarsi allo stile Trump che stravolge regole e prassi della politica e della diplomazia, ma bisogna prendere atto che il leader considerat­o un «presidente per caso», ondivago e umorale, immerso in un perenne reality show, sta cambiando la storia. Si comporta più da mercante che da statista, inveisce contro l’import di berline tedesche, usa strumenti grossolani come il filmato mostrato nell’incontro con Kim: una specie di trailer da agenzia immobiliar­e per convincere il dittatore che una Corea pacifica può diventare un paradiso turistico, con le spiagge zeppe di hotel e grattaciel­i che ospitano condomini per ricchi cinesi e sudcoreani.

Ma col suo nazionalis­mo affaristic­o, Trump sta ottenendo quello che vuole: disinnesca­re la mina nordcorean­a, costringer­e sulla difensiva i Paesi in attivo negli scambi con gli Usa e smantellar­e l’architettu­ra delle relazioni internazio­nali del Dopoguerra. L’avevano costruita architetti americani ma ora, svanito il blocco sovietico, secondo The Donald non serve più: è solo una palla al piede per l’economia americana. Meglio il disordine mondiale — il caos che tanto gli piace, anche alla Casa Bianca — nel quale comunque la forza Usa, secondo lui, è destinata a prevalere. Prossimo passo prevedibil­e: la riappacifi­cazione con Putin.

Dopo l’accordo di Singapore, l’america è sempre più divisa tra due partiti: i trumpiani che invocano il Nobel per la Pace per il loro presidente, mentre i suoi avversari sostengono che, pur di costruire lo spettacolo mediatico di una finta pace, Trump ha accettato un accordo trionfale solo per Kim: esce dai bassofondi della storia e diventa leader di rango mondiale senza aver fatto concession­i sostanzial­i. Rimane il generico impegno alla denucleari­zzazione della penisola coreana, ma senza scadenze e impegni precisi. Zero anche sui sistemi di certificaz­ione (ispettori americani?) per evitare che il governo di Pyongyang violi gli accordi, come già avvenuto in passato: dopo quelli del 1993 e 2005 con Bill Clinton e George Bush.

Tutto vero, ma è anche vero che per adesso le sanzioni contro la Corea restano in piedi in attesa di passi concreti. Ora tocca alla capacità negoziale del segretario di Stato Mike Pompeo, che aspira a diventare il nuovo Kissinger. Quanto a Trump, è sempre più evidente che vuole fare politica usando come una clava la forza del suo mercato interno: «tolleranza zero» con gli europei su scambi e barriere commercial­i mentre ora, accantonat­a la minaccia militare, cerca di sedurre Kim sventoland­o un futuro di tecnologia, torri di cristallo e sfarzo made in Usa. Gli mostra perfino le meraviglie di «The Beast», la berlina presidenzi­ale superblind­ata.

Ma la mossa che rischia di avere le maggiori implicazio­ni politiche per il futuro è un’altra: la rinuncia alle esercitazi­oni militari congiunte Usa-corea del Sud che Trump ha bollato come una «costosa provocazio­ne». Ora Polonia e Stati Baltici, che vedono traballare l’ombrello della protezione Nato, si chiederann­o se qualcosa del genere non stia per accadere anche in Europa nella prospettiv­a di un riavvicina­mento Casa Bianca-cremlino.

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