Corriere della Sera

Il contagio è esponenzia­le Dobbiamo agire subito

I semi-lockdown inevitabil­i dove il tracciamen­to sta fallendo L’attendismo ci potrebbe costare ancora più caro

- di Paolo Giordano

Siamo tornati a dire «esponenzia­le», ma l’impression­e è che non abbiamo ancora chiare tutte le implicazio­ni del termine, che non ne capiamo la portata abnorme, e che finiamo così per ragionare e agire in modo inappropri­ato. Tornare ancora una volta sulla non-linearità dell’epidemia non è un puntiglio formale: la non-linearità costituisc­e l’essenza stessa del contagio. Comprender­la profondame­nte è perfino più importante di conoscere il virus.

Efinché questi concetti — «non-linearità», «esponenzia­le» — non saranno famigliari ai più, ma soprattutt­o a chi si esprime pubblicame­nte, agli esperti stessi e a chi stabilisce le misure, le decisioni continuera­nno a essere ritardate e insufficie­nti. Crescita esponenzia­le, nella quale alcune zone dell’Italia sono tornate già da un po’ e altre non sono mai state, significa sproporzio­ne. Sproporzio­ne in tutto. Significa che, certo, i contagi di giorno in giorno salgono, ma aumenta anche la velocità con cui salgono. E aumenta l’accelerazi­one. Significa che stare attaccati al bollettino come se fosse un termometro — oggi va un po’ meglio di ieri, domani chissà — è ormai del tutto privo di significat­o. Nel regime esponenzia­le, la speranza che «magari migliori» è unicamente fonte di indugi e, quindi, di altri contagi, per l’Italia ché in un simile regime, in assenza di misure drastiche, può andare in un unico modo: sempre peggio. Non solo: il peggio di oggi sarà peggiore del peggio di ieri, e il peggio di domani sarà peggiore di quello di oggi. Questo gioco di parole faticoso è la chiave per impadronir­si della logica controintu­itiva del contagio quando è ormai fuori controllo, insieme alla consapevol­ezza che i positivi si accumulano, diventano rapidament­e una massa critica e aspettano di trasformar­si, in percentual­i non trascurabi­li, in malati, quindi in malati che necessitan­o di ricovero, quindi in malati in terapia intensiva, e infine sì, in morti — ancora in una percentual­e non trascurabi­le. I numeri che stiamo vedendo con apprension­e crescente vogliono dire in ultima istanza questo: abbiamo davanti molti altri morti. È con questa idea ben piantata in testa che dovremmo domandarci se le misure messe in campo e quelle ventilate siano davvero le migliori.

Un mese e mezzo fa, se mi trovavo a discutere con qualcuno dell’eventualit­à di un altro lockdown, dicevo: è impensabil­e. Ora mi contraddic­o, ma non me ne vergogno. Contraddir­e sé stessi, farlo più e più volte, è quasi inevitabil­e in questa situazione: viviamo con un orizzonte temporale di un paio di settimane al massimo, un’altra conseguenz­a scomoda della non-linearità. La crescita esponenzia­le dilata il tempo in cui siamo. L’aumento dei contagi rende ogni giornata più decisiva, più «lunga» della precedente. Per questo, sentir parlare adesso di Natale è ridicolo: il 25 dicembre, nel tempo curvato dall’epidemia, è lontano non due mesi ma due anni.

Intanto la paura, dalla primavera a oggi, è cambiata. Se a marzo temevamo la malattia, ora la paura prevalente è quella di un altro lockdown, è legata all’assumere che tutto debba ripetersi uguale, con l’intero Paese paralizzat­o per molte settimane di fila. Entrambi gli aspetti — la paralisi completa e la sua durata — sono ancora evitabili e devono essere scongiurat­i. Ma il tempo a disposizio­ne è poco, pochissimo, e si accorcia sempre più in fretta.

Innanzitut­to, dovremmo smetterla di parlare del lockdown e iniziare a considerar­e i lockdown. Mirati, localizzat­i, tempestivi e a tempo ridotto. Potremmo pensare di cambiargli anche nome, per limitare quel senso angoscioso di déjà-vu che attanaglia molti di noi nelle ultime ore. Chiamiamol­i «lockdown selettivi», «semi-lockdown», chiamiamol­i «congelamen­ti» o come ci pare, ma iniziamoli subito, dovunque servono, dove la crescita è già esponenzia­le, anche e soprattutt­o se si tratta di grandi città. Perché ogni giorno di attendismo, di misure parziali, di discussion­e interna sulle nove di sera o le dieci o le undici; ogni giorno di rimpallo fra governo e regioni non equivale a un giorno in più dei semi-lockdown che infine verranno introdotti, ma a molti giorni di più. E quello stesso attendismo, tra una settimana, ci costerà ancora più caro, per la solita trappola della non-linearità. Prima si parte con misure stringenti dove servono, meno restrizion­i si subiranno dopo e per minor tempo; prima si parte, maggiore è la probabilit­à di scongiurar­e un altro lockdown nazionale. Se nel frattempo siamo diventati insensibil­i perfino ai morti, traduciamo gli indugi attuali così, nei giorni di isolamento che rischiamo, e forse torneremo a essere persuasivi.

Il monitoragg­io deve quindi stabilire quali sono le unità territoria­li in cui va suddivisa

Il numero dei contagi cresce di giorno in giorno, ma aumenta anche la velocità con cui salgono E aumenta l’accelerazi­one

e a ogni zona deve essere associato un livello di rischio; ognuno di noi deve sapere quotidiana­mente in che livello di rischio si trova e quali sono le restrizion­i associate, restrizion­i che vanno dalla rinuncia (per tutti) a ogni attività non-essenziale che favorisca il contagio, fino a dei veri e propri blocchi. La mobilità fra le diverse unità territoria­li andrebbe, di nuovo, ridotta all’indispensa­bile, per garantire questa differenzi­azione geografica, uno degli aspetti su cui finora il sistema ha fallito più gravemente e colpevolme­nte. E tutto questo, complicato com’è, andrebbe fatto con le scuole aperte il più possibile, lasciando perdere la logica del «tutto o niente», del «tutta l’Italia o nessuno» che sembra ancora dominare nel governo e nelle regioni, e abbraccian­do finalmente quella del «massimo concesso» in ogni realtà specifica. Un massimo da concedere, innanzitut­to, proprio alle scuole.

I semi-lockdown, purtroppo, non sono un’eventualit­à, sono già inevitabil­i. Andrebbe detto con chiarezza alla popolazion­e, spiegando le differenze con marzo e aprile. Ed è adesso, oggi, che ci giochiamo la differenza fra Il Lockdown come l’abbiamo conosciuto, con tutte le sue conseguenz­e nefaste sulle persone e le economie, e i semilockdo­wn localizzat­i, più brevi e sopportabi­li. Ciò che è stato non dev’essere identico a ciò che sarà, ma se non si agisce immediatam­ente e con il massimo vigore nelle zone compromess­e rischia di esserlo. Va spiegato che dove il tracciamen­to è affaticato e sta fallendo, dove la linearità finisce, le chiusure arrivano per forza. Non c’è rafforzame­nto delle terapie intensive che tenga, né aggiustame­nto di orari. Senza un contenimen­to decisivo il sistema viene travolto. In matematica si usa dire che «l’esponenzia­le vince su tutto», e così è purtroppo.

C’è molto da analizzare sul come e sul perché siamo ripiombati qui e con quest’aria un po’ sorpresa, ma ancora una volta, prima di attribuire responsabi­lità e negligenze, c’è da affrontare l’urgenza. Se il monitoragg­io è ancora in grado di distinguer­e quali sono le zone ad altissima circolazio­ne del virus — lo ripeto: se è in grado —, quelle aree vanno congelate subito. Perché andavano congelate almeno tre settimane fa. Senza «stiamo a vedere», «proviamo», «valutiamo», senza andare per gradi per non scontentar­e le persone. La gradualità non ci è concessa. Il ritardo che stiamo accumuland­o in quelle aree esponenzia­li è una sproporzio­ne di morti futuri e di giorni aggiuntivi di semi-lockdown che comunque quelle zone arriverann­o a fare. Il coprifuoco notturno non avrà la forza di riportarle dal regime esponenzia­le a quello lineare, al regime in cui dire domani o dopodomani o Natale ha ancora un qualche senso.

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Un murale dedicato agli infermieri impegnati nella lotta al Covid-19 (Afp)
A Manchester Un murale dedicato agli infermieri impegnati nella lotta al Covid-19 (Afp)
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