Deborah, gli sms e la trappola dell’assegno
«Se vuoi i soldi ti faccio un assegno» scrive Lorenzo Cattoni, accusato di aver ucciso l’ex moglie Deborah. I messaggi scambiati tra i due, secondo la Procura, dimostrano la premeditazione.
Da decenni si fa carico della sofferenza di tante donne. Dà loro gli strumenti per denunciare, le accompagna in un momento difficile, le prepara ad affrontare un processo per stupro perché ancora oggi la vittima è travolta dalle domande impertinenti dell’Aula. C’è prima e durante. L’avvocata Elena Biaggioni, vicepresidente del Centro Antiviolenza di Trento, nella sua carriera ha imparato a guardare in faccia la violenza di genere. E oggi, dinnanzi all’ennesimo femminicidio, invita tutti a prendere sul serio ogni singolo caso, smettendola di attendere da altri il cambiamento.
«Un femminicidio annunciato». Avvocata, la morte di Deborah Saltori è sintetizzata così, quasi a voler gettare sale su una ferita che è anche collettiva. Si poteva fare qualcosa?
«Partiamo da una premessa: non esistono soluzioni facili, la bacchetta magica non ce l’ha nessuno e ogni situazione deve essere valutata singolarmente. Le persone credono che con il Codice rosso si trovi la chiave, ma è tutto più complesso di così. Piuttosto dobbiamo imparare a prendere sul serio queste tragedie».
Deborah ha denunciato, il suo
assassino è stato posto ai domiciliari. Eppure non è bastato: crede che la concessione di coltivare il campo, a un chilometro dalla casa della vittima, sia stata un errore?
«Non possiamo dirlo, tutto sarà stato valutato».
Ma la legge protegge a sufficienza le vittime di violenza?
«Le leggi ci sono, bisogna applicarle. Dobbiamo smetterla di pensare che si risolva tutto con delle norme facili. È tempo di cominciare a partire dal sé, evitando di aspettarci che sia sempre qualcun altro a doversene occupare. Certo, lo Stato è responsabile ma anche noi dobbiamo lavorare su noi stessi e sulla nostra capacità di riconoscere ex ante la violenza, ogni singola forma di violenza».
Il 2020 ha segnato un exploit di femminicidi che mostrano una feroce diffusione intergenerazionale. Da che parte si comincia per cambiare?
«Credere che il fenomeno non riguardi i giovani è uno stereotipo: le ragazze non ritengono ci sia attualità, pensano riguardi sempre qualcun altro. Ma, lo sappiamo, non è così. Per cominciare citerei l’approccio della convenzione di Istanbul che prevede di agire contemporaneamente su più fronti: sulla protezione, sulla punizione, sulla cultura, e sulla definizione di un approccio strutturato. Servono servizi, case rifugio, formazione, cultura trasversale dalla scuola materna all’università per fornire gli strumenti utili a riconoscere i pericoli della violenza e smettere di occultarla».
Cita le case rifugio, Deborah ha cercato di mantenere la normalità per i suoi figli dopo i domiciliari di Cattoni ed è rimasta nel suo appartamento. Andava protetta di più?
«Se l’idea è prendere le donne per le orecchie e portarle in una struttura siamo fuori strada: è l’aggressore che va rinchiuso, c’è qualcosa che non va se dobbiamo nascondere la donna. Altrimenti rischiamo di cadere in un paradosso: se non s’è protetta s’è fatta ammazzare. Poi, certo, le case rifugio sono vitali ma in questa vicenda terribile mi sento di rivolgere un appello».
Quale?
«Mi rivolgo all’assessora Stefania Segnana affinché ricominci il percorso culturale abbandonato. Abbiamo un’università, un Centro Antiviolenza e un Centro studi di genere che lavorano da anni; dobbiamo riprendere i corsi di educazione affinché bambini, genitori, ragazzi e ragazze imparino che la violenza è inaccettabile».