«Sono una risposta all’individualismo delle città» La sociologa Pasqualini (Cattolica): serve un amministratore vivace altrimenti fanno flop
Nate a Bologna, si sono diffuse anche a Barcellona, Francoforte fino ad arrivare in Brasile e Nuova Zelanda. Da semplice vicinato virtuale, le social street stanno diventando un fenomeno mondiale che consente di riscoprire valori di cui forse ci eravamo un po’ scordati. Cristina Pasqualini, sociologa alla Cattolica di Milano, ha perciò deciso di studiarle con i colelghi Fabio Introini e Nicoletta Pavesi.
Professoressa di fronte a quale fenomeno sociale ci troviamo?
«In Italia ci sono 490 Social street. Non sono tutte attive alla stessa maniera, alcune funzionano bene sia online che offline, altre sono esclusivamente online, ma ugualmente funzionanti. Si tratta di un modello che si basa su collaborazione, gratuità, sul dono e quindi ha come obiettivo la socialità tra vicini e poi è sempre più vero che innesca dinamiche vicine alla sharing economy, anche se alle Social street non interessa l’economia». Ad esempio cosa succede? «Ci si conosce tra vicini poi si innesca il bike sharing o uno scambio di libri, tutto però parte dalla socialità, che quando va a regime innesca altre pratiche. La gratuità è il valore base di queste esperienze».
Cioè durante la crisi ci siamo accorti che dovevamo sopperire alle difficoltà con più solidarietà?
«Non credo. Le Social street nascono in alcune città ben precise e il fatto che ce ne siano tante a Milano o a Bologna è una risposta all’individualismo a cui negli anni ci eravamo abituati. Forse le grandi città hanno bisogno di riscoprire la socialità, di non aver paura del vicino: queste sono esigenze tipiche di chi vive nei grandi centri urbani. Perché infatti le Social street non nascono nei paesini? Lì la collaborazione esiste già. La cosa interessante è anche la nuova dimensione di queste realtà, che passano dalla rete. Sono “strade sociali 2.0” in cui i vicini si conoscono prima su Facebook e poi in strada. Non è un paradosso o un male, ma segno del nostro tempo, visto che siamo iperconnessi: così usiamo virtuosamente i social network per avvicinarci alle persone».
Resta il fatto che amministrarle è un vero e proprio lavoro.
«Ritengo che le Social street siano gruppi orizzontali in cui il fondatore ha il merito di aver aperto e alimentato una pagina. Quello che le persone non capiscono è che la strada è di tutti e tutti dovrebbero proporre iniziative, per questo se non partecipano l’amministratore è in affanno, deve sempre alimentare o redimere conflitti, moderare conversazioni, togliere la pubblicità non pertinente. Se è così, diventa un lavoro e l’amministratore molla. In via Fondazza invece hanno sistematizzato la loro esperienza e l’hanno trasformata in un modello. Il ruolo delle istituzioni? « Chi sta dentro le Social street vuole le istituzioni troppo vicine, vuole solo dialogare meglio con esse, ad esempio non passare da mille burocrazia per una festa in strada».