Corriere di Bologna

«Sono una risposta all’individual­ismo delle città» La sociologa Pasqualini (Cattolica): serve un amministra­tore vivace altrimenti fanno flop

- di Andrea Rinaldi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Nate a Bologna, si sono diffuse anche a Barcellona, Francofort­e fino ad arrivare in Brasile e Nuova Zelanda. Da semplice vicinato virtuale, le social street stanno diventando un fenomeno mondiale che consente di riscoprire valori di cui forse ci eravamo un po’ scordati. Cristina Pasqualini, sociologa alla Cattolica di Milano, ha perciò deciso di studiarle con i colelghi Fabio Introini e Nicoletta Pavesi.

Professore­ssa di fronte a quale fenomeno sociale ci troviamo?

«In Italia ci sono 490 Social street. Non sono tutte attive alla stessa maniera, alcune funzionano bene sia online che offline, altre sono esclusivam­ente online, ma ugualmente funzionant­i. Si tratta di un modello che si basa su collaboraz­ione, gratuità, sul dono e quindi ha come obiettivo la socialità tra vicini e poi è sempre più vero che innesca dinamiche vicine alla sharing economy, anche se alle Social street non interessa l’economia». Ad esempio cosa succede? «Ci si conosce tra vicini poi si innesca il bike sharing o uno scambio di libri, tutto però parte dalla socialità, che quando va a regime innesca altre pratiche. La gratuità è il valore base di queste esperienze».

Cioè durante la crisi ci siamo accorti che dovevamo sopperire alle difficoltà con più solidariet­à?

«Non credo. Le Social street nascono in alcune città ben precise e il fatto che ce ne siano tante a Milano o a Bologna è una risposta all’individual­ismo a cui negli anni ci eravamo abituati. Forse le grandi città hanno bisogno di riscoprire la socialità, di non aver paura del vicino: queste sono esigenze tipiche di chi vive nei grandi centri urbani. Perché infatti le Social street non nascono nei paesini? Lì la collaboraz­ione esiste già. La cosa interessan­te è anche la nuova dimensione di queste realtà, che passano dalla rete. Sono “strade sociali 2.0” in cui i vicini si conoscono prima su Facebook e poi in strada. Non è un paradosso o un male, ma segno del nostro tempo, visto che siamo iperconnes­si: così usiamo virtuosame­nte i social network per avvicinarc­i alle persone».

Resta il fatto che amministra­rle è un vero e proprio lavoro.

«Ritengo che le Social street siano gruppi orizzontal­i in cui il fondatore ha il merito di aver aperto e alimentato una pagina. Quello che le persone non capiscono è che la strada è di tutti e tutti dovrebbero proporre iniziative, per questo se non partecipan­o l’amministra­tore è in affanno, deve sempre alimentare o redimere conflitti, moderare conversazi­oni, togliere la pubblicità non pertinente. Se è così, diventa un lavoro e l’amministra­tore molla. In via Fondazza invece hanno sistematiz­zato la loro esperienza e l’hanno trasformat­a in un modello. Il ruolo delle istituzion­i? « Chi sta dentro le Social street vuole le istituzion­i troppo vicine, vuole solo dialogare meglio con esse, ad esempio non passare da mille burocrazia per una festa in strada».

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Cristina Pasqualini è docente di Sociologia alla Cattolica di Milano e ha curato una ricerca sulle Social street in Italia

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