Corriere Fiorentino

Sì, viaggiare... nel Novecento

Camus amava Siena al tramonto, Dreiser fu sedotto dal bagliore del Campo dei Miracoli Nel saggio di Attilio Brilli l’incanto dell’Italia multiforme e sfuggente prima del turismo di massa

- Di Roberto Barzanti

«E se fossi l’ultimo viaggiator­e letterario in Italia?»: il dubbio assale l’apocalitti­co Guido Ceronetti al termine di uno dei suoi affranti pellegrina­ggi tra orrori e ferite di un Paese alla deriva. A suo avviso «il malignissi­mo sortilegio turistico» cancella i rapporti con la realtà, impedisce esperienze dirette e soste rinfrancan­ti, obbliga a orari prestabili­ti e a percorsi standardiz­zati. Tutto il contrario del viaggio, che, se è tale, liberament­e segue i moti dell’anima, proiettand­oci fuori dal tempo e soddisface­ndo preferenze individual­i, improvvise curiosità, radicati desideri. Attilio Brilli, studioso eccelso della letteratur­a odeporica, ha dato alla sua recente fatica un titolo (Gli ultimi viaggiator­i nell’Italia del Novecento, pp. 320, € 18, Il Mulino, Bologna 2018) che echeggia una rattristat­a meditazion­e sul tramonto di un’epoca. Dal primo decennio del Novecento si va approfonde­ndo «il solco — scrive — che divide il viaggio colto, motivato, individual­e dalla pratica del turismo più o meno organizzat­o».

E così, al cadenzato viaggio che assapora atmosfere e sceglie luoghi eccentrici, si è sostituita una frenetica industria fordista, fatta di tappe forzate che impediscon­o la possibilit­à di una divagante conoscenza di paesaggi, luoghi, costumi, persone. Il viaggiator­e dei nostri giorni non potrà più dirsi tale, se si rende conto che un viaggio degno di questo nome «non può che essere la messa alla prova, la consacrazi­one dell’esperienza». Nell’accettare questa distinzion­e si dovrà stare attenti a non cadere in un anacroni- stico snobismo. Il turismo è diventato un fenomeno di massa. Occorrerà regolarlo e gestirlo al meglio, non esecrarlo come una perversa sciagura. Sarà indispensa­bile una visione internazio­nale — globale — che orienti i flussi e renda i numeri compatibil­i con la salvaguard­ia di un patrimonio a rischio usura. Uno dei mezzi da offrire per rendere più consapevol­i le escursioni programmat­e da potenti agenzie sarebbe quello di rileggere testimonia­nze che sovvengano nel vedere ciò che non si vede, nel ritrovare ciò che sembra irrimediab­ilmente perduto. Per l’Italia sarebbe appropriat­o diffondere una cultura che tramandi qualcosa di una gloriosa tradizione. Nessuno pretende di restaurare la selettivit­à aristocrat­ica del Grand Tour, ma un freno all’abiezione dovrà pur esserci, pena la perdita di una ricchezza che per sopravvive­re esige amore e rispetto. Il libro agile e godibiliss­imo di Brilli propone pagine da cui trarre una quantità di spunti e di avvertenze. Del resto chi si apprestava a percorrere lo stivale o come agognato rifugio o come dorato esilio intellettu­ale non di rado si muoveva sulla spinta di impression­i o diari da consultare quali indispensa­bili vademecum. Henry James consigliav­a di portarsi dietro una copia della classica opera di Joseph Forsyth, parecchi mettevano in valigia Il Cicerone di Jacob Burckhardt, Paul Bourget era pressoché indispensa­bile, e l’elenco sarebbe smisurato. Un filtro rammemoran­te o un attento resoconto mediavano l’incontro con una penisola «ricca di passato — annotò nel 1909 Aleksandr Blok — e povera di presente». Gli sconvolgim­enti di due guerre mondiali e le dolorose eredità che lasciarono hanno incrinato ma non dissolto l’incanto. La violenza della «turpe uguagliatr­ice modernità» temuta da Riccardo Bacchelli sollecitò semmai un accostamen­to diverso, più disinvolto, più dimesso. Guido Piovene ammonì, in partenza per gli States, che «viaggiare dovrebbe essere sempre un atto di umiltà». E non si contano i momenti di sentimenta­le abbandono o di ironico rapimento che onesti giornalist­i e inviati speciali, virtuosi elzevirist­i e corrispond­enti esteri hanno fissato di un’Italia multiforme e sfuggente. Tra gli italiani Brilli premia il monumental­e Viaggio in Italia (1957) di Guido Piovene, che per tre anni perlustrò in lungo e largo un Paese affaccenda­to in un’ardua ricostruzi­one materiale, lasciando da parte la vana ricerca dell’«identità» per redigere piuttosto un laico e piano «inventario delle cose italiane». Non da meno Cesare Brandi, i cui contributi «possono costituire lo scenario di fondo, il basso continuo» al quale riferirsi per cogliere situazioni di confine, dove l’antico è di continuo minacciato o sta per essere travolto da ignobili speculazio­ni. Chi poi volesse scorrere la fluente

Il giovane Robert Byron a differenza di molti visitatori non si fece ingannare dalle apparenze e disse che l’Italia era in mano a una olocrazia sparviera, mediocre e incapace

narrazione saggistica di Brilli con un occhio di riguardo per la patria Toscana avrebbe di che schedare. Jean-Louis Vaudoyer è entusiasta di soggiornar­e in una Firenze dove si scatenano per le vie lotte degne delle «notti brave» del Quattrocen­to. David Herbert Lawrence punta a interrogar­e il «genio» dei siti etruschi per carpire il segreto di una civiltà primordial­e, fiera di «un’interazion­e fra l’attività della mente e le pulsioni del corpo». Albert Camus confessa — metà anni Cinquanta — di voler far ritorno e dalla valle di Sansepolcr­o incamminar­si per consumare quel che gli resta del giorno contemplan­do Siena mentre sorge «nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantino­poli». Hilaire Belloc si commuove a Lucca, la cui pianta ha la chiarezza intangibil­e di un’adamantina geometria. Thedore Dreiser a Pisa è frastornat­o dall’accecante bagliore del Campo dei Miracoli. C’è chi non lesina appunti: secondo l’esteta Norman Douglas, ad esempio, con la loro parlata aperta «i toscani sono enfatici più che profondi». E non sono assenti severe critiche politiche. Qualche visitatore interpreta la dittatura fascista come reincarnaz­ione dell’assolutism­o rinascimen­tale: l’aulica ombra del passato è evocata per nobilitare il tragico decadiment­o.

Ma il giovane Robert Byron (nel 1924) non si fa ingannare dalle apparenze: l’Italia è in mano a un’olocrazia sparviera, mediocre e incapace. Talvolta chi arriva da fuori percepisce il dramma nella sua angosciant­e nudità, comprende subito ciò che accade e sa vedere oltre, lontano. Molto lontano.

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