Il confronto «fabbrile» di Levi con le parole
Una riflessione in quattro parti su lingua e letteratura
Gian Luigi Beccaria è uno studioso di un tipo ormai raro in Italia. La sua formazione e la sua indole originaria di geolinguista e sociolinguista attento forse più al lessico che alla grammatica, cioè più alle vicende dei parlanti e delle parole che alla struttura di queste ultime, gli hanno permesso di attraversare disinvoltamente il ponte che congiunge la linguistica e lo studio della letteratura. Nei territori di quest’ultima, Beccaria non sente il bisogno di ancorare le proprie riflessioni a questa o quell’obbedienza teorica, usando - in un certo senso - il passaporto diplomatico del linguista per sfuggire alla coscrizione di qualsiasi scuola critico-letteraria e alternativamente quello dello studioso di letteratura per non essere arruolato da alcuna parrocchia linguistica, riuscendo ad offrire agli studiosi più ortodossi dell'uno e dell’altro campo stimoli interessanti e originali.
Un esempio di questa sua tendenza è il libriccino appena pubblicato per l’elegante Divano di Sellerio: una riflessione in quattro tempi su Primo Levi che tiene insieme lingua e letteratura, e che fin nel titolo (I «mestieri» di Primo Levi) pare uscito per gemmazione da un suo saggio recente dedicato al Mestiere di scrivere (Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019). Il titolo è ovviamente allusivo anche a un’opera di Levi stesso, L’altrui mestiere, da cui prende le mosse qui un breve e arguto attraversamento del rapporto dello scrittore con la lingua - cioè con l’italiano ovviamente, ma anche con la linguistica in generale, e naturalmente pure con un dialetto, il piemontese, che è un ulteriore trait d'union, qui, fra l’autore esaminato e il critico esaminatore. Quest’ultimo non si perita, come spesso fa nei suoi libri, di accumulare ad esempio una pagina intera di spogli, cioè di reperti lessicali, là dove vuole documentare la torinesità della scrittura leviana attraverso una sfilza di «arditi piemontesismi», tipo balengo “scemo”, baliare “prendersi cura di”, berliccarsi “leccarsi”, boie panatere “scarafaggi”, bruciacuore “bruciore di stomaco”, cernaia “disordine”, corame “cuoio”, dimora “divertimento”, stomaco “seni”, patamollo “fiacco, lento”, malgraziosa “scortese”, rabastare “trascinare sfregando il terreno” e così via.
Al centro del discorso, si badi bene, non c’è tanto la lingua o lo stile di Primo Levi, oggetto - massime nel recente anno centenario della sua nascita, il 2019 - di varie e variamente approfondite attenzioni. C’è piuttosto il suo rapporto con la lingua e con la linguistica, cioè quel corpo a corpo con le parole che nell’autore piemontese accompagna il «corpo a corpo» con la materia di cui parlò Cesare Cases avvicinandosi alla scrittura del chimico narratore. Beccaria riparte appunto da una concezione fabbrile della lingua, per cui Levi par considerare i materiali linguistici in modo simile a come concepiva gli elementi della scienza ch’egli meglio padroneggiava, e che aveva professionalmente applicato nel suo mestiere, cioè la chimica. Levi - osserva Beccaria - ha con la scrittura un rapporto analogo a quello che, da uomo dei laboratori e degli impianti, ha con i materiali, nel senso che concepisce lo scrivere come un fare pratico, un’attività quasi manuale nella concretezza del mettere e del togliere, del versare, poi far decantare e infine filtrare depurando la pagina degli elementi superflui, pervenendo all’asciuttezza di un rapporto di fabbrica.
L’occasione è propizia per dare un ulteriore colpo (se ne son già dati innumerevoli, si dirà: sì, ma coi tempi che corrono non sono mai troppi) alle applicazioni più stucchevoli di un modello già in sé assurdo, quello delle cosiddette due culture, a uno scrittore di romanzi che è anche chimico (o viceversa). Come se avesse senso vedere una crepa là dove non la videro, con le parole dell’Altrui mestiere, «Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell'inconoscibile». Tenendo artificiosamente separate le due culture (cioè frazionando indebitamente la cultura), osserva Beccaria, si perde la misura dell’universo in cui viviamo, se è vero - di nuovo con le parole di Levi - che «Galileo era un grandissimo scrittore proprio perché non era scrittore affatto. Era uno che voleva esporre quello che aveva visto». E che altro è lo stesso Primo Levi, che di sé diceva «mi sento un centauro. Perché doppio, ibrido, bifido. Sono italiano ed ebreo, chimico e scrittore, razionalista e poeta»?
In alcune parti del volumetto, Beccaria si allontana e quasi si distoglie dall’ipotesi centrale del Levi linguista (sarebbe stato un ottimo linguista, opina Beccaria: un terzo mestiere che gli sarebbe perfettamente convenuto) per darsi a una lettura più libera di alcune pagine leviane, ad esempio là dove ripercorre il Sistema periodico fermandosi sulle sue parti più tormentate, più lungamente meditate: prima fra tutti, Carbonio, l’elemento per cui Levi scrive di fatto un mirabile «elogio dell’imperfezione, dell’impurità, del corruttibile, del disordine che si oppone all’ordine» che è «ad un tempo un elogio alla vita». In coda a un’annata, quella centenaria, che è stata ricca di contributi celebrativi, e come tale fatalmente ripetitiva in tante sue espressioni, I «mestieri» di Primo Levi consente di tornare all’autore di Se questo è un uomo e della Tregua da un’angolatura e con una freschezza nuove, che saranno un buon viatico per ulteriori, raccomandabili esercizi di lettura sul variegato insieme dei suoi scritti.