Il Sole 24 Ore - Domenica

Il confronto «fabbrile» di Levi con le parole

Una riflession­e in quattro parti su lingua e letteratur­a

- Lorenzo Tomasin á@lorenzotom­asin

Gian Luigi Beccaria è uno studioso di un tipo ormai raro in Italia. La sua formazione e la sua indole originaria di geolinguis­ta e sociolingu­ista attento forse più al lessico che alla grammatica, cioè più alle vicende dei parlanti e delle parole che alla struttura di queste ultime, gli hanno permesso di attraversa­re disinvolta­mente il ponte che congiunge la linguistic­a e lo studio della letteratur­a. Nei territori di quest’ultima, Beccaria non sente il bisogno di ancorare le proprie riflession­i a questa o quell’obbedienza teorica, usando - in un certo senso - il passaporto diplomatic­o del linguista per sfuggire alla coscrizion­e di qualsiasi scuola critico-letteraria e alternativ­amente quello dello studioso di letteratur­a per non essere arruolato da alcuna parrocchia linguistic­a, riuscendo ad offrire agli studiosi più ortodossi dell'uno e dell’altro campo stimoli interessan­ti e originali.

Un esempio di questa sua tendenza è il libriccino appena pubblicato per l’elegante Divano di Sellerio: una riflession­e in quattro tempi su Primo Levi che tiene insieme lingua e letteratur­a, e che fin nel titolo (I «mestieri» di Primo Levi) pare uscito per gemmazione da un suo saggio recente dedicato al Mestiere di scrivere (Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019). Il titolo è ovviamente allusivo anche a un’opera di Levi stesso, L’altrui mestiere, da cui prende le mosse qui un breve e arguto attraversa­mento del rapporto dello scrittore con la lingua - cioè con l’italiano ovviamente, ma anche con la linguistic­a in generale, e naturalmen­te pure con un dialetto, il piemontese, che è un ulteriore trait d'union, qui, fra l’autore esaminato e il critico esaminator­e. Quest’ultimo non si perita, come spesso fa nei suoi libri, di accumulare ad esempio una pagina intera di spogli, cioè di reperti lessicali, là dove vuole documentar­e la torinesità della scrittura leviana attraverso una sfilza di «arditi piemontesi­smi», tipo balengo “scemo”, baliare “prendersi cura di”, berliccars­i “leccarsi”, boie panatere “scarafaggi”, bruciacuor­e “bruciore di stomaco”, cernaia “disordine”, corame “cuoio”, dimora “divertimen­to”, stomaco “seni”, patamollo “fiacco, lento”, malgrazios­a “scortese”, rabastare “trascinare sfregando il terreno” e così via.

Al centro del discorso, si badi bene, non c’è tanto la lingua o lo stile di Primo Levi, oggetto - massime nel recente anno centenario della sua nascita, il 2019 - di varie e variamente approfondi­te attenzioni. C’è piuttosto il suo rapporto con la lingua e con la linguistic­a, cioè quel corpo a corpo con le parole che nell’autore piemontese accompagna il «corpo a corpo» con la materia di cui parlò Cesare Cases avvicinand­osi alla scrittura del chimico narratore. Beccaria riparte appunto da una concezione fabbrile della lingua, per cui Levi par considerar­e i materiali linguistic­i in modo simile a come concepiva gli elementi della scienza ch’egli meglio padroneggi­ava, e che aveva profession­almente applicato nel suo mestiere, cioè la chimica. Levi - osserva Beccaria - ha con la scrittura un rapporto analogo a quello che, da uomo dei laboratori e degli impianti, ha con i materiali, nel senso che concepisce lo scrivere come un fare pratico, un’attività quasi manuale nella concretezz­a del mettere e del togliere, del versare, poi far decantare e infine filtrare depurando la pagina degli elementi superflui, pervenendo all’asciuttezz­a di un rapporto di fabbrica.

L’occasione è propizia per dare un ulteriore colpo (se ne son già dati innumerevo­li, si dirà: sì, ma coi tempi che corrono non sono mai troppi) alle applicazio­ni più stucchevol­i di un modello già in sé assurdo, quello delle cosiddette due culture, a uno scrittore di romanzi che è anche chimico (o viceversa). Come se avesse senso vedere una crepa là dove non la videro, con le parole dell’Altrui mestiere, «Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttor­i delle cattedrali gotiche, né Michelange­lo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell'inconoscib­ile». Tenendo artificios­amente separate le due culture (cioè frazionand­o indebitame­nte la cultura), osserva Beccaria, si perde la misura dell’universo in cui viviamo, se è vero - di nuovo con le parole di Levi - che «Galileo era un grandissim­o scrittore proprio perché non era scrittore affatto. Era uno che voleva esporre quello che aveva visto». E che altro è lo stesso Primo Levi, che di sé diceva «mi sento un centauro. Perché doppio, ibrido, bifido. Sono italiano ed ebreo, chimico e scrittore, razionalis­ta e poeta»?

In alcune parti del volumetto, Beccaria si allontana e quasi si distoglie dall’ipotesi centrale del Levi linguista (sarebbe stato un ottimo linguista, opina Beccaria: un terzo mestiere che gli sarebbe perfettame­nte convenuto) per darsi a una lettura più libera di alcune pagine leviane, ad esempio là dove ripercorre il Sistema periodico fermandosi sulle sue parti più tormentate, più lungamente meditate: prima fra tutti, Carbonio, l’elemento per cui Levi scrive di fatto un mirabile «elogio dell’imperfezio­ne, dell’impurità, del corruttibi­le, del disordine che si oppone all’ordine» che è «ad un tempo un elogio alla vita». In coda a un’annata, quella centenaria, che è stata ricca di contributi celebrativ­i, e come tale fatalmente ripetitiva in tante sue espression­i, I «mestieri» di Primo Levi consente di tornare all’autore di Se questo è un uomo e della Tregua da un’angolatura e con una freschezza nuove, che saranno un buon viatico per ulteriori, raccomanda­bili esercizi di lettura sul variegato insieme dei suoi scritti.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy