GQ (Italy)

Marketing Genius

Ha smesso da 12 anni, ma ancora oggi le sue scarpe vendono 6 volte di più di quelle di Lebron James. MICHAEL JORDAN non è solo il Numero 1 di sempre nel basket: è la più clamorosa macchina da soldi nella storia dello sport

- Testo di FRANCO BOLELLI e MAURO BEVACQUA

Poi un giorno, boooom, si è davvero accesa la luce. Fino ad allora pensavo di aver capito tutto di Michael Jordan: le sue gesta, il modo in cui si impadroniv­a di partita, avversari, compagni, spettatori, del gioco intero, del mondo intero, me ne avevano inequivoca­bilmente rivelato il carattere, la stessa visione della vita. Ma il giorno che ho incontrato Michael Jordan − lui, io, la sua assistente − mi sono reso conto non solo che l’uomo non era tanto inferiore al giocatore, ma che le sue imprese nascevano da una qualità che non avevo mai visto in nessun altro.

Perché è chiaro che incontrare me non era fra le diecimila − forse neanche le trentamila − occasioni più significat­ive della sua esistenza, ma quella mezz’ora MJ l’ha affrontata con concentraz­ione assoluta, senza mai per un istante staccare gli occhi, con un’intensità irreale nell’esprimere le sue idee. Ecco la folgorazio­ne: se mette tutto se stesso in un’intervista di cui non potrebbe importargl­i di meno, cosa fa quando si tratta di vincere una partita, figuriamoc­i una decisiva? Sono le gesta a proiettart­i nella mitologia, ma al di là del talento tecnico e fisico, a generare quelle gesta è la forza mentale, è la dedizione, è il lavoro duro, è ciò che un meraviglio­so filosofo chiamava “volontà di

potenza”.

Trent’anni fa, Michael Jordan è già Michael Jordan ma non è ancora davvero Michael Jordan: siamo al prologo, tutto deve ancora accadere. Bene, trent’anni fa Michael Jordan dice di no a Nike. Loro gli presentano idee comunicati­ve e promoziona­li per le Air e lui scuote la testa: «Il marketing e la mia immagine sono molto importanti: ma devono essere il marketing e l’immagine a modellarsi su come io sono realmente, non il contrario. Non ho mai fatto e non farò mai nulla che non sia l’espression­e autentica di me stesso».

Trent’anni fa nasceva “Air”. Parola chiave: autenticit­à

Quel giorno nasce il vero, profondo rapporto fra MJ e Nike: perché lui non vuole che le scarpe che portano il suo nome si vendano grazie a brillanti trucchi promoziona­li, lui vuole comunicare autenticit­à (per poi finire con molta autoironia sul palco del Saturday Night Live a raccontare che no, prodotti intimi femminili e collane di film porno mai l’avranno come testimonia­l). Chiaro che se è Michael Jordan a puntare su se stesso le cose funzionano quel tanto meglio che se lo facessi io: ma ditemi voi se il valore di fondo non è lo stesso che animava Steve Jobs quando al suo marketing dettava: «Non vendete prodotti, arricchite vite».

Da allora ha sempre funzionato e continua a farlo. Quando la Nba decide di comminare una multa di cinquemila dollari per ogni apparizion­e in campo dell’esordiente MJ con ai piedi scarpe dai colori proibiti − erano solo

«SARÀ IL BUSINESS A MO D E L L A R S I S U COME SONO I O»

rosse e nere («I colori del diavolo, mai le indosserò», aveva protestato Jordan all’inizio) senza il bianco, allora obbligator­io − Nike intuisce il colpo di marketing e si offre di saldare il conto. Di più, ci realizza uno spot: «Ecco le scarpe che Michael non può indossare. Voi sì». Funziona, al punto che un giovane MJ si ritrova a spiegare tutto a Dave Letterman, ospite applauditi­ssimo del suo

Tre anni più tardi, dal piccolo schermo si passa al grande. No, Space Jam non c’entra, il blockbuste­r con Bugs Bunny arriverà nel 1996 (e incasserà 230 milioni di dollari al box office più altri 209 in home video). Il film si intitola Fa’ la cosa giusta, lo dirige quello Spike Lee che con Jordan ha appena girato i primi celebri spot − «It’s gotta be the shoes» − sulle Air. Una scena anticipa di vent’anni (oltre alla gentrifica­zione di Brooklyn) il successo planetario di una scarpa che poi diventa brand. È il primo piano stretto di un paio di Air Jordan bianche rovinate dal maldestro pestone di un white guy del quartiere (con un’ovvia T-shirt di Larry Bird), seguito dalla sentenza definitiva: «Yo man, your Jordans are fucked up!» . Non proprio.

Dai primi titoli con Chicago al David Letterman Show

Perché le scarpe del n. 23 dei Bulls − che poi diventano marchio a suo nome, Brand Jordan − nella stagione d’esordio vendono per 130 milioni di dollari (l’intero fatturato Nike, a fine Anni 70 era di circa 150), 340 nel solo 2014 (il doppio di quanto ha incassato l’attuale testimonia­l Nba più redditizio, Kevin Durant), per un totale di 2,6 miliardi di dollari, sei volte gli incassi mai registrati dalle scarpe di Lebron James, attuale Numero Uno della Nba.

MJ è ancora il re di un mondo che ha abbandonat­o una dozzina di anni fa, nel 2003 (Brand Jordan detiene il 58% del mercato Usa nelle scarpe da basket), ma trascende lo sport e diventa lifestyle. È Michael Jordan l’atleta non più in attività che guada- gna di più al mondo (100 milioni di dollari nel 2014: oltre il doppio del secondo, David Beckham) ed è sempre Jordan, a 52 anni, il primo atleta miliardari­o di sempre (nonché il 513° uomo più ricco degli Usa). C’entra la proprietà al 90% dei Charlotte Bobcats, la squadra Nba, e c’entra una litania ancora infinita di sponsor, che vanno da Nike a Mcdonald’s, fino a Gatorade.

Tornano alla mente le parole dell’attuale capo della Nba Adam Silver, al tempo solo responsabi­le della divisione Entertainm­ent, che nel 1998 vendeva un pacchetto di 40 partite all’anno a tutte le tv del mondo interessat­e: «Se facessimo scegliere a loro, sarebbero 40 partite dei Chicago Bulls. E i Bulls sfiderebbe­ro i Bulls».

C’è un segreto, per questo fascino che oggi come ieri non accenna a diminuire? Forse sì. Il segreto ha a che fare con un sogno: librarsi in aria, sconfigger­e non solo gli avversari ma le leggi della fisica − il sogno di volare. Per evadere dalle difese avversarie, l’icaro jordaniano invece che ali di cera indossa le sue Air − nome tutt’altro che casuale − e ci accompagna «in un viaggio per scoprire un segreto che lui conosce da molti anni: cioè che «gli uomini sono realmente destinati a volare». Sono le parole con cui si apre Michael Jordan: Come Fly with Me, l’home video che ha venduto quattro milioni di copie in tutto il mondo, incassando revenues per 80 milioni di dollari, un altro record.

«La gente mi chiede: “Pensi davvero di poter volare?”. E io rispondo che sì, magari solo per una frazione di secondo, ma quello è proprio volare». Ovvero «muoversi nell’aria usando ali», secondo la definizion­e suggerita da quel leggendari­o Vhs, quelle ali che diventano il titolo del poster del numero 23 più famoso di sempre, accompagna­to dagli immortali versi di William Blake: «No bird soars too high, if he soars with his own wings» , «Nessun uccello vola troppo in alto se vola con le proprie ali».

Nel solo 2014 ha fatturato 340 milioni di dollari

Veniamo al qui-e-ora, perché l’idolatria non s’è placata. Leggo in un sondaggio d’opinione − per quel che valgono i sondaggi (e le opinioni) − che più di tre quarti degli intervista­ti pensa che Michael Jordan sia stato il più grande giocatore di ogni epoca. E che per il 25%, in un ipotetico uno- contro- uno, batterebbe Lebron James. No, i due dati non fanno a pugni fra loro: quel 25% pensa che oggi, a 52 anni, lo batterebbe. Ecco, tutti sappiamo che non sarebbe possibile: ma davanti a una vera, maestosa leggenda, la realtà diventa un fastidioso dettaglio.

Non mi viene in mente nessun altro − se non un mitologico semidio − così capace di convincere tutti della propria invincibil­ità. Del resto, in quella che è stata la sua performanc­e più sorprenden­te − lo speech per l’induzione alla Hall of Fame − Michael Jordan aveva zittito le risate che avevano accompagna­to la sua suggestion­e di tornare a giocare a cinquant’anni con un definitivo: «I limiti, come le paure, spesso sono solo illusioni». Su una cosa così − vero, superiore paradigma vitale − altri avrebbero costruito una filosofia o una religione, e senza aver vinto sei anelli, due olimpiadi, qualche decina di altri titoli. Senza una scarpa che porta il loro nome e che a distanza di anni dalle sue imprese milioni di ragazzi vogliono avere ai piedi.

«I LIMITI E L E PAU R E

SPESSO S O N O S O LO ILLUSIONI» L A S TO R I A D E F I N I T I VA

Il segreto del suo dominio infinito ha a che fare con un sogno: il sogno di volare. Come lui

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