Spartani
PER C ASO Ci hanno chiesto di partecipare a SPARTAN X, il più duro tra i reality show, con prove fisiche estreme, tronchi freudiani e muri da scalare. Non potevamo tirarci indietro, anche se la “figura di merda doc” è sempre dietro l’angolo
Mi avevano detto: ti andrebbe di vivere un giorno in un reality show? Uno di quei reality tosti, genere sportivo-estremo, con prove di forza e coraggio, mica quelle cose da debosciati, tipo Grande Fratello, dove la prova fisica più estrema è deambulare dal letto al divano. Questo è un reality cazzuto, tipo addestramento dei Marines, non a caso il nome è ispirato ai Marines presocratici: gli spartani. Si chiama Spartan X. Basta la parola “Sparta” per evocare quel film con 300 maschioni a torso nudo e barba hipster, quelli che se gli nasceva un figlio difettato lo abbandonavano sul monte Taigeto e chi s’è visto s’è visto.
Con l’ultradefinizione si vedranno persino i pori piliferi dei concorrenti
Mi avevano detto: voi giornalisti dovrete superare alcune delle prove a cui sono sottoposti i concorrenti. Nonostante l’unica cosa in comune con gli spartani fosse un po’ di barba, ho accettato lo stesso. Il motivo? So per esperienza che, quando i giornalisti vengono invitati a partecipare a “esperienze estreme”, queste poi si rivelano innocue scampagnate che non mettono in difficoltà nemmeno l’inviata di Cucito & Ricamo. Questo pensavo.
Per stare tranquillo ho comunque chiesto in cosa consistessero esatta-
un pericolo. L’olandese non ne parliamo: un ragazzino col ciuffone a banana e le mani di chi nella vita ha sollevato al massimo un iphone. Arrivando dall’olanda, poi, confido in un abuso di droghe leggere sufficiente a comprometterne la coordinazione psicomotoria. Lo spagnolo, nonostante l’aria da impiegato delle Poste sui 50 anni, è quello che più mi preoccupa. Indossa una maglietta dell’esercito, ma non è un vezzo: viene fuori che è davvero nell’esercito e scrive per una rivista che tratta argomenti da militari, tipo
GLI SC ONFITTI D OV R A N N O
DORMIRE A L LÕA D D I ACC I O
dopo averci stritolato la mano in segno di benvenuto, ci presenta i tronchi. Dice che, «così, tanto per scaldarci», possiamo sceglierne uno e portarlo in cima alla collina correndo. «È quello che fanno i concorrenti tutti i giorni per poter accendere il fuoco», dice. Ma dimentica che quelli sono atleti professionisti che un tronco di 15 chili lo usano come portachiavi. Guardo il mio troncone della felicità, penso a tutti i simbolismi freudiani evocati dalla sua forma, e capisco che la giornata sta prendendo una brutta piega. E non uso il termine “piega” a caso. Ma ormai è troppo tardi, abbraccio il tronco e, rischiando l’esplosione di alcune arterie, riesco ad arrivare in cima.
Un muro di 16 metri che, secoli fa, fu costruito per non essere scalato
Quando mi torna la vista, noto che lassù, accampate su un pagliericcio, ci sono due concorrenti, quelle escluse temporaneamente dal castello. Faccio loro qualche domanda: dicono che hanno accettato di partecipare perché, da atlete professioniste, amano le sfide; che qui hanno scoperto di poter superare i loro limiti; che la cosa più dura è la paura di fallire; o la convivenza forzata con undici sconosciuti. La chiacchierata viene interrotta da Kris, dalla cui bocca sento uscire la parola “muro” mentre il suo muscolosissimo indice punta una parete rocciosa a strapiombo alta sei metri, in cima alla quale si erge una muraglia di altri dieci metri. Mi avevano detto: tre metri. Invece dobbiamo scalare un muro alto sedici metri che, secoli fa, fu appositamente costruito per non essere scalato.
Guardo la muraglia e realizzo a) che non ce la farò mai, ma anche b) che nessuno dei miei avversari ce la farà mai. Scalare quel muro è stata la prima prova che i concorrenti hanno dovuto superare per poter entrare nel castello. Cinque su 12 non ce l’hanno fatta. E stiamo parlando di super atleti. Nessuno vuole salire per primo. Alla fine si opta per il più giovane: l’olandesino. Lo imbracano sotto i nostri sguar- di sarcasticamente compassionevoli, fissi ora sulle sue mani delicate ora sulle sue improbabili calzature. Poi accade qualcosa. L’ultima cosa che ricordo sono i piedi intrecciati attorno alla corda, in un misterioso incastro da marinaio dell’800. Batto le ciglia. Quando le riapro, lui è già arrivato in cima. Gli organizzatori non credono ai loro occhi: davanti alle nostre bocche aperte lui ci spiegherà che in Olanda, fin dall’asilo nido, ai bambini non insegnano altro che ad arrampicarsi sulla corda. Maledico la pubblica istruzione olandese.
Il tedesco, ferito nell’orgoglio teutonico, manco a dirlo ce la fa nella metà del tempo. Maledico il Crossfit. Ormai è una faccenda tra me e lo spagnolo. Vado io. Mi imbracano. Cerco pateticamente di incastrare i piedi à la façon dell’olandese ma nel mio background culturale c’è l’istruzione pubblica italiana, non quella fiamminga, e il libro Cuore non serve a molto quando devi scalare un muro di 16 metri. Così vado su a forza di braccia ma, a due metri dalla vetta il corpo mi abbandona. Ho fallito. Perché la mia figura di merda non diventi un’enorme Figura Di Merda doc, non mi resta che gufare l’anziano militare spagnolo, sperando che le sue membra, logorate dalla guerra, alzino bandiera bianca. Ma l’addestramento militare, oltre a insegnarti a scalare i muri, ti insegna a evitare figure che possano gettare discredito sulla patria: così, nonostante a metà del tragitto sia già in arresto cardiorespiratorio, pur mettendoci un’eternità, il milite riesce ad arrancare fino alla cima. Una coltre di vergogna oscura il resto della mia giornata spartana. Certo, vincerò la prova di intelligenza e quella di lancio del giavellotto, ma non basterà a lavare via l’onta.
E comunque, quando, nell’ultima sfida, si tratterà di usare ancora la forza bruta per tagliare un tronco (riecco Freud) con l’accetta, fallirò nuovamente. Fine dei giochi. In aeroporto cerco un volo per la Grecia. Monte Taigeto, arrivo.
«Cinque su dodici non ce l’hanno fatta, e parliamo di super atleti: ora tocca a me»
N U OVO F O R M AT,
N U OVO C A N A L E