Cibo estremo, gusto raffinato
Carne di foca, pesce essiccato e rape fermentate. La scelta di tre cuochi che vivono ai confini del mondo
Prima arriva il “vento delle donne”, leggero e continuo. Seguono alcuni istanti di cielo limpidissimo e immobilità assoluta. Poi si scatena il “vento degli uomini”, il piterak, che spazza i ghiacci a trecento all’ora e, per giorni e giorni, costringe a barricarsi nelle case/rifugio ascoltando i gemiti degli iceberg che si spezzano.
Groenlandia, latitudine 65°36’52” N, a meno di un grado dal Circolo Polare Artico. Destinazione Utili Aapalartoq, la Casa Rossa ( the-red-house.com), a Tasiilaq, l’ostello che l’alpinista altoatesino Robert Peroni ha costruito per sé e per il popolo “magnificamente umano” degli Inuit con il quale si sono reciprocamente adottati. Era capitato là a capo di una spedizione per battere il record di permanenza in quelle terre desolate, ma è tornato per viverci. Quarant’anni fa. Da allora ne ha scritto in tre libri (l’ultimo, In quei giorni di
tempesta, pubblicato l’anno scorso da Sperling & Kupfer), prendendo le difese di una razza sconvolta dall’arroganza della cultura occidentale e costruendo questa sorta di rifugio dove gli Inuit possono lavorare tutelati dallo sciamano bianco, che qui ha creato a loro misura un progetto di turismo sostenibile. Il piterak è anche il tipo di situazione che perfidamente Peroni predilige per far tremare i polsi ai turisti metropolitani quando vedono volare le finestre e, allora, capiscono che avevano ragione gli Inuit quando si calavano in profonde buche insieme a pelli d’orso e carne di foca fermentata attendendo al sicuro la fine della grande tempesta. A Tasiilaq si impara a uscire armati («Nanuk, l’orso bianco, è astuto e affamato e cerca l’odore dell’uomo»), si ascoltano leggende, si mangia la cucina che nasce dove per sei mesi la temperatura è meno 50.
È solo a metà maggio, quando il fiordo si libera dai ghiacci e arrivano i container con il cibo per l’inverno, che ci sono verdure e frutta fresche. Poi si vive di carne di foca, di balena, di orso, essiccata, affumicata, fermentata. O fresca, se la caccia è stata fortunata. Allora Peroni si improvvisa maestro di stufati artico-altoatesini sorvegliando «un bel pezzo di foca con chiodi di garofano e alloro, in alternativa a una tartara di halibut o a un’eccellente balena tonnata o alla parmigiana».
In confronto, le Faroe, diciotto isole rocciose tra Scozia e Islanda, latitudine 62° 0’ 35” N, ma lambite dalla Corrente del Golfo, con venti che soffiano “solo” a 120 miglia all’ora, sono una sorta di Hawaii nordica. D’estate sulle rocce muschiose pascolano pecore pelose come yeti col cui latte gli antenati dei vichinghi fanno un formaggio che appendono in capanne aperte insieme alle carcasse di montone e di halibut finché si coprono di una patina di funghi verdastri. È il “ræst” l’amato sapore locale, tra l’essiccato e il fermentato, che esige palati
spericolati. Eppure da quando il Km Zero fa trend, persino i cautelosi ispettori Michelin si sono avventurati da quelle parti e hanno attribuito una stella a Koks, a Tangafjødur, nel villaggio di Kirkjubøur, dove Poul Andrias Ziska trasforma il cibo di sopravvivenza in alta gastronomia. Aragoste e scampi giganti avvolti in fumo di pino, capesante enormi, ricci di mare ancora pulsanti, dashi di alghe. E anche, sì, montone fermentato accompagnato da un bicchiere di Amontillado, cosa nient’affatto strana perché le Faroe da secoli esportano stoccafisso in Spagna.
Eppure quegli stessi 50 sottozero degli Inuit sono, forse, la chiave di volta (e di svolta) della grande cucina francese, la cui supremazia negli ultimi anni è stata scippata dalla Spagna e dalla Danimarca. Yannick Alléno, insignito di sei stelle − col Ledoyen di Parigi e con il 1947 di Courchevel − dalla Guida Rossa, ha elaborato una teoria innovativa che pone il gelo come mezzo rivoluzionario per concentrare ed esaltare i sapori originari degli alimenti. In opposizione al fuoco che li snatura e li distrugge. Il nome tecnico del procedimento, coperto da brevetto, è Cryoconcentration, e ne nasce una gastronomia eccitante ricca di salse («l’elemento identitario della cucina francese») succulente ma leggere.
L’ispirazione è nata a 1.850 metri di altitudine tra le nevi di Courchevel, la famosa stazione sciistica francese, dove Alléno, alla guida del 1947, il ristorante dello Cheval Blanc, proprietà LVMH, ha abbracciato le limitazioni imposte dall’alta montagna con un menu a tappe. Si inizia dalla collina con il foie gras in crosta di fieno; si affronta la montagna con una trota di torrente; si arriva in zona subalpina con brodo e rape fermentate; si raggiunge la vetta con patate in crosta d’argilla e polvere di carbone vegetale. Di rigore mangiare anche la buccia.