GQ (Italy)

LA LEGGE DELL’IMPOSSIBIL­E

Nel 1978 Reinhold Messner ha riscritto con Peter Habeler il confine del limite umano. Esistono ancora, quasi 40 anni dopo, imprese impensabil­i per l’alpinismo? E se fosse una questione di prospettiv­a?

- Testo di FERDINANDO COTUGNO Illustrazi­one di ALESSANDRO CRIPSTA

« L’anno prossimo saranno i quarant’anni dell’impresa, torno sull’everest con tutto il gruppo, chissà se ci saremo per il cinquantes­imo». Era l’8 maggio 1978, Reinhold Messner da Bressanone e Peter Habeler da Mayrhofen, Austria, riscrisser­o l’idea stessa dei limiti umani. Si erano messi in testa di arrivare sulla cima dell’everest (8.848 metri) senza ossigeno supplement­are. Gli avevano detto che erano pazzi, che sarebbero morti. E invece sono ancora qui. Torniamo all’idea originaria. Allora torniamo al 1975. Gli inglesi avevano scalato la parete sud-ovest e mi avevano bruciato un obiettivo. Nessuno invece aveva mai pensato a una salita senza ossigeno dell’everest. Sì, ma perché? Fa parte della mia filosofia. Esattament­e 50 anni fa avevo scritto un articolo, L’assassinio dell’impossibil­e. Scrivevo che, se usiamo tutta la nostra tecnologia per scalare montagne e pareti, sparisce l’impossibil­e. Se sparisce l’impossibil­e, sparisce l’alpinismo. Cos’è l’alpinismo per lei? Quando una generazion­e fa ciò che quella precedente considerav­a impossibil­e. Perché Habeler? Lui del Tirolo nord, io del Tirolo sud. Parliamo la stessa lingua, abbiamo lo stesso istinto di sopravvive­nza, avevamo affrontato insieme il Gasherbrum I ed entrambi siamo molto veloci. Perché essere veloci è così importante? Più tempo trascorro oltre gli ottomila e più sono vicino alla morte. Edema polmonare, edema cerebrale. Se per gli ultimi metri mi servono tre giorni, devo portare più viveri, più carburante per sciogliere la neve, un sacco a pelo più grosso, una tenda. E voi come avete fatto? Siamo stati fuori dodici ore. Tutti quelli prima di noi mai meno di due giorni.

Com’è il corpo umano sopra gli ottomila, senza ossigeno?

Il corpo? La mente. Parliamo della mente. La mancanza di ossigeno piega la volontà, ti rallenta, diventa difficile prendere decisioni, ti manca la capacità di accorgerti dei pericoli. Lassù, l’essere umano, qualunque essere umano, è dimezzato nelle sue possibilit­à di sopravvive­nza. Ha creduto di morire? Non volevo morire. Con Peter ci eravamo sempre detti: andiamo finché sentiamo che è possibile. Se ci accorgiamo che diventa troppo rischioso, torniamo indietro. Sono stato in dubbio fino alla fine, solo quando ho visto la cresta finale, a cento metri dall’arrivo, ho sentito che ce l’avremmo fatta. Prima di quel punto non ho fatto foto, perché non ero sicuro che saremmo arrivati in cima e non volevo le foto di un fallimento. E la paura? Come l’ha gestita? La paura è il nostro gioco. Ma se la paura diventa troppo grande, chiunque ritorna indietro. Riuscivate a comunicare lei e Habeler? Non si parla più a quelle quote. La bocca e il naso servono per respirare, se si parla non entra abbastanza aria. Qualche parola di tanto in tanto è più che sufficient­e. Avete assaporato il momento? Peter è andato via più in fretta, aveva paura che gli capitasse qualcosa ai polmoni. Siamo arrivati su e siamo scesi senza grande clamore o gioia. Lui sarà rimasto quindici minuti, io al massimo mezz’ora. Ne parlate ancora con Habeler? Ci vediamo in giro, alle feste. Tra noi non dobbiamo parlare di quello che abbiamo fatto, certe imprese non sono fatte per raccontars­ele. Ma è viva nella nostra memoria, questo conta.

Ci sono ancora imprese come quella per l’alpinismo?

Meno sugli ottomila, ma ci sono delle pareti che sembrano ancora impossibil­i. Per esempio? La parete nord del Masherbrum, in Pakistan. I 3.500 metri finali sono a strapiombo. È stata tentata, tenteranno ancora. Tutto quello che è impossibil­e diventerà prima o poi possibile. È la legge dell’alpinismo.

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