GQ (Italy)

Cronaca di unõestinzi­one

Ritratti di montagna, prima e dopo: un reportagis­ta torna sui luoghi dei grandi esplorator­i. Documentan­do il cambiament­o (in peggio)

- Testo di MARZIANI COLINI Foto di FABIANO VENTURA

Una vita in quota. Il fotografo romano Fabiano Ventura ha pensato il progetto Sulle Tracce dei Ghiacciai per raccontare con approccio scientific­o (e senza lasciare spazio all’interpreta­zione sentimenta­lista) l’evoluzione/estinzione delle zone più fredde della terra. Specializz­ato in tematiche ambientali e fotografia di montagna, Ventura si ispira al lavoro dei fotografi che a cavallo tra ’800 e ’900 accompagna­vano le prime spedizioni organizzat­e per esplorare le vette del mondo. Il suo è un reportage globale, letteralme­nte: dopo aver viaggiato tra le montagne del Karakorum e nella regione del Caucaso, in Alaska e sulle Ande, nei prossimi anni Ventura si concentrer­à sull’area dell’himalaya (2018) e sulle Alpi (2020).

Tutto ha inizio nel 2004, quando Fabiano, che al tempo ha 29 anni, viene scelto come fotografo ufficiale per il 50° anniversar­io della salita al K2, 8.611 metri conquistat­i dagli italiani (la cima fu raggiunta da Achille Compagnoni e Lino Lacedelli il 31 luglio 1954). «In quel momento ho capito che volevo dedicarmi al tema dei cambiament­i climatici attraverso la

fotografia», racconta. Così prende piede l’idea di imbastire una serie di spedizioni con cadenza biennale, per raggiunger­e i ghiacciai più importanti del pianeta. Non in solitaria, ma accompagna­to di volta in volta da esperti di geologia e glaciologi­a. Fabiano riprende lo stesso punto geografico nello stesso periodo dell’anno delle immagini scattate dagli esplorator­i del Ventesimo secolo: è il cosiddetto sistema del raffronto fotografic­o, dal quale si può partire per un case study affidabile. La scelta di usare macchine fotografic­he di grande formato in pellicola garantisce che l’inquadratu­ra collimi con quella delle foto storiche. Poi, un comitato scientific­o internazio­nale passerà ad analizzare le misurazion­i glaciologi­che effettuate durante i singoli viaggi.

L’iniziativa nasce ambiziosa e per questo ottiene presto consensi, sponsor (Enel, Fujifilm, La Montana) e il patrocinio dell’università degli Studi di Milano e de La Sapienza di Roma. Con all’attivo quattro spedizioni, sessanta confronti fotografic­i, cinque programmi di ricerca e ventidue ghiacciai analizzati, Fabiano Ventura si sente di ribadire con certezza: «Il riscaldame­nto globale sta provocando il collasso di interi ghiacciai. In oltre vent’anni di lavoro in cima alle montagne, ho visto i paesaggi mutare drasticame­nte. In certi punti il confronto tra il passato e il presente è spiazzante. Se penso che gli esperti prevedono che da qui al 2030 moltissimi ghiacciai spariranno, ho i brividi».

Brividi Fabiano ne ha avuti spesso: di paura e di freddo. «Sostenere fisicament­e certe prove e confrontar­si con la natura selvaggia dei ghiacciai ti fa sentire minuscolo e indifeso. E stupido, a pensare di poter controllar­e la natura. La violenza delle sue reazioni ci dice quanto abbiamo esagerato con le nostre abitudini di vita, irrispetto­se del pianeta: terremoti, piogge, siccità, uragani... Gli eventi naturali hanno carattere di assoluta gravità». Difficoltà a parte, Fabiano non ha intenzione di fermarsi: i paesaggi estremi lo motivano. «Mi è capitato di sbagliare a tracciare l’itinerario sulla mappa e di dover proseguire due giorni senza cibo − l’acqua non manca, su un ghiacciaio − per raggiunger­e la meta prefissata». Gli è capitato anche di dormire in una tenda circondata da orsi grizzly o di sperimenta­re il panico causato da un motore in avaria in mezzo al Mare del Nord, con il motoscafo preso d’assalto da una famiglia di orche.

Quel che conta, per Fabiano Ventura, è generare consapevol­ezza con il proprio lavoro. «Quando mi invitano a parlarne in conferenza o nelle scuole, racconto come i ghiacciai mi abbiano insegnato il rispetto. Spero di non dovergli dire addio».

Jo Nesbø ha paura del vuoto. Perciò arrampica. Funziona così. I suoi thriller sottozero hanno venduto 33 milioni di copie nel mondo. È nato a Oslo; il freddo gli fa un baffo. Gli sport gli vengono facili, da sempre. Per esempio, prima dei suoi 20 anni ha giocato a calcio a buon livello. Ed è abituato a ghiacciare il sangue dei suoi lettori: in questi giorni è in libreria con una nuova edizione italiana di L’uomo di neve, il suo romanzo più famoso con l’ispettore Harry Hole come protagonis­ta, mentre al cinema c’è la versione, tratta dallo stesso libro, con Michael Fassbender e la regia di Tomas Alfredson. Eppure.

Dice che ritrovarsi penzoloni nel vuoto è un’altra storia. E che farlo con fatica rende tutto più impervio, ma anche apprezzabi­le. «È una novità, per me. Non ho mai avuto difficoltà con gli sport. L’arrampicat­a, quella sì. Mi ha fatto sentire sgraziato. I primi tempi guardavo gli altri imparare velocement­e, mentre io restavo indietro, il tipo che arranca».

L’ultima volta che gli è capitato di parlare di montagna, lo ha fatto raccontand­o che cosa prova al Financial Times. «Ho capito di essere spaventato dalle altezze, un po’ più della media». Il suo debutto, otto anni fa, è stato in Thailandia. Dopo aver affrontato la parete, è sceso in spiaggia. Un uomo distrutto. Ed è sprofondat­o nel sonno per due ore e mezza. Da allora torna nelle stesse latitudini ogni anno. Magari a Tonsai, nell’area di Krabi. Perché le pareti thailandes­i sono le migliori, secondo lui, che puoi trovare nel Sud-est asiatico.

Mani forti e gesso. Davanti agli attrezzi, Nesbø ammette che nella sua testa si agita un fantasma mentale, più che il timore per la fatica fisica. Stare appeso alla roccia lo fa sentire in quella situazione in cui, senza trovarti in chissà quale pericolo imminente o reale, hai paura. «È la sensazione del pericolo, più che il pericolo stesso: è un angolo della mia testa che non avevo ancora esplorato; probabilme­nte è questo il motivo che mi tiene agganciato all’arrampicat­a». Succede ogni inverno: lo scrittore parte per un paio di mesi. A scalare e a pensare al prossimo libro. Australia e Borneo. Grecia e States. E l’italia: qualche mese fa Nesbø era qui per presentare Sete, l’undicesimo episodio del detective Hole. Ne ha approfitta­to per fare un giro in Valtellina e mettersi alla prova con lo Zucco dell’angelone, la Pala Condor e il Sasso di Introbio.

C’è qualcosa, nel non essere il migliore ma scoprirsi capace di una soluzione ben pensata, che gli dà piacere. La prima volta che ha affrontato una parete 7c, ha dovuto metterci la testa per mesi. E quando finalmente ha capito come affrontarl­a, non c’era nessuno, a impresa compiuta, a compliment­arsi con lui. A parte il suo compagno di cordata. Mesi di lavoro per un’avventura di pochi minuti. Davanti a una quantità di turisti ignari, interessat­i solo all’abbronzatu­ra. Una soddisfazi­one personale, sudata assai, senza altra eco. In passato invece Nesbø ha svicolato parecchio: ai tempi di squadra di calcio, per esempio, era stato convocato per sottoporsi al test di Cooper − vediamo quanto puoi correre lontano in 12 minuti − e ha preferito rimbalzare la sessione. Stessa modalità a scuola. Finché a saltare sono stati i legamenti delle ginocchia. Fine della carriera in campo. Inizio di quella in una business school.

«L’arrampicat­a è l’unico sport in cui cervello e corpo non possono mettersi d’accordo», ha detto una delle volte che ha parlato dell’argomento. La mente non può capire che senso ha cercare di salire su una roccia liscia. Ti chiederà di stare giù, non di spingerti in alto. «Perciò devi condurre la testa a convincere il corpo a fare i movimenti giusti». Di fronte al vuoto, ti salva l’eleganza scaltra del ragno.

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 ??  ?? L’uomo di neve, Einaudi Stile libero Big, pagg. 552, 20 €. È una riedizione/prima edizione: Einaudi pubblica il romanzo con la nuova traduzione di Eva Kampmann
L’uomo di neve, Einaudi Stile libero Big, pagg. 552, 20 €. È una riedizione/prima edizione: Einaudi pubblica il romanzo con la nuova traduzione di Eva Kampmann

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