Il Fatto Quotidiano

Pigiami, pantaloni o gonne: l’abito non fa la vittima

INMOSTRA Vestiti ispirati a quelli indossati da donne stuprate

- » SILVIA D’ONGHIA E FRANCESCO MUSOLINO

Una maglietta sporca di sangue, un paio di pantaloni della tuta strappati e la maglietta di un pigiama di My Little Pony. Abiti semplici e d’uso comune, nulla di estremo. Non c’è traccia di minigonne o abiti in latex. E in ogni caso non sarebbe un alibi. Ma è proprio la loro normalità a colpire gli occhi dei visitatori della mostra What were you wearing?– organizzat­a dal servizio di prevenzion­e del comune di Molenbeek- Saint- Jean presso il Centre Communauta­ire Maritime di Bruxelles (fino al 20 gennaio) – in cui sono raccolti ed esposti una sequenza di indumenti, in tutto e per tutto simili a quelli che indossavan­o le vittime al momento della violenza sessuale subita e raccontata dai media. La mostra approda adesso in Europa, ma l’idea è nata nell’Università del Kansas.

IL TITOLO Che cosa stavi indossando? non lascia spazio a interpreta­zioni o ad alibi: gli abiti esposti alle pareti non hanno nulla a che fare con le tendenze o con la moda, ma vogliono dimostrare che il guardaroba della vittima, il suo outfit, non può essere causa del male subito. E così accanto ad ogni capo c’è una targa che raccon- ta in modo esplicito la storia di violenza ad esso legata. Potremmo finalmente liberarci della zavorra culturale legata ai casi di stupro?

Una volta spento lo sdegno iniziale della pubblica piazza e dei social network, quante volte abbiamo ascoltato provocazio­ni o becere ironie riguardant­i proprio gli abiti indossati dalle vittime di violenza? Sino a giungere alla frase di condanna più esplicita e mortifican­te: “Probabilme­nte se l’è andata a cercare”.

L’esposizion­e di Bruxelles dà ai visitatori la fotografia esatta, scarna e senza fronzoli, di come stanno le cose. Eppure c’è chi è riuscito a generare confusione anche sul contenuto della mostra stessa: la stampa inglese, nel raccontarl­a, ha riferito che si trattasse dei reperti reali prestati dalle vittime.

ESPORLI pubblicame­nte, invece, secondo gli organizzat­ori sarebbe stata un’ulteriore violenza. “Piuttosto – ha dichiarato al Fatto Delphine Goossens, responsabi­le della mostra – sono il frutto del racconto di alcuni studenti del Kansas che hanno volontaria­mente fornito brevi descrizion­i di cosa indossavan­o quando hanno subito violenza sessuale. Le loro parole – prosegue Goossens, che è anche la project manager per il servizio di prevenzion­e del Comune di Molenbeek – sono state utilizzate come guida e gli abiti mostrati nell’installazi­one non sono reali referti, ma una rappresent­azione visiva delle loro storie”. Dovrebbe ormai essere palese a tutti che non vi può essere alcuna colpa nel vestiario delle vittime, tuttavia viviamo tempi quantomeno controvers­i; così alle denunce del movimento di protesta #MeToo a seguito del caso Harvey Weinstein, si è contrappos­ta nei giorni scorsi una lettera aperta firmata da 100 donne francesi, testimonia­l d’eccezione Catherine Deneuve, dove si invita a mettere fine alla caccia alle streghe in tema di molestie, a costo di tollerare d’essere importunat­e.

“L’I N TE N TO d e ll ’ i ns t a ll azione – ha spiegato ancora Goossens – è creare una risposta tangibile a uno dei miti della cultura dello stupro più diffusi. La convinzion­e che l’abbigliame­nto possa causare la violenza è estremamen­te dannosa soprattutt­o per i sopravviss­uti. Questa installazi­one consente ai partecipan­ti di vedere se stessi riflettend­o non solo sugli abiti, ma anche attraverso le esperienze dei sopravviss­uti”.

Bruxelles

La curatrice: “Sfatiamo i luoghi comuni e raccontiam­o i sopravviss­uti”

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Come ti vesti? Alcuni degli indumenti esposti a Bruxelles fino al 20 gennaio

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