Pigiami, pantaloni o gonne: l’abito non fa la vittima
INMOSTRA Vestiti ispirati a quelli indossati da donne stuprate
Una maglietta sporca di sangue, un paio di pantaloni della tuta strappati e la maglietta di un pigiama di My Little Pony. Abiti semplici e d’uso comune, nulla di estremo. Non c’è traccia di minigonne o abiti in latex. E in ogni caso non sarebbe un alibi. Ma è proprio la loro normalità a colpire gli occhi dei visitatori della mostra What were you wearing?– organizzata dal servizio di prevenzione del comune di Molenbeek- Saint- Jean presso il Centre Communautaire Maritime di Bruxelles (fino al 20 gennaio) – in cui sono raccolti ed esposti una sequenza di indumenti, in tutto e per tutto simili a quelli che indossavano le vittime al momento della violenza sessuale subita e raccontata dai media. La mostra approda adesso in Europa, ma l’idea è nata nell’Università del Kansas.
IL TITOLO Che cosa stavi indossando? non lascia spazio a interpretazioni o ad alibi: gli abiti esposti alle pareti non hanno nulla a che fare con le tendenze o con la moda, ma vogliono dimostrare che il guardaroba della vittima, il suo outfit, non può essere causa del male subito. E così accanto ad ogni capo c’è una targa che raccon- ta in modo esplicito la storia di violenza ad esso legata. Potremmo finalmente liberarci della zavorra culturale legata ai casi di stupro?
Una volta spento lo sdegno iniziale della pubblica piazza e dei social network, quante volte abbiamo ascoltato provocazioni o becere ironie riguardanti proprio gli abiti indossati dalle vittime di violenza? Sino a giungere alla frase di condanna più esplicita e mortificante: “Probabilmente se l’è andata a cercare”.
L’esposizione di Bruxelles dà ai visitatori la fotografia esatta, scarna e senza fronzoli, di come stanno le cose. Eppure c’è chi è riuscito a generare confusione anche sul contenuto della mostra stessa: la stampa inglese, nel raccontarla, ha riferito che si trattasse dei reperti reali prestati dalle vittime.
ESPORLI pubblicamente, invece, secondo gli organizzatori sarebbe stata un’ulteriore violenza. “Piuttosto – ha dichiarato al Fatto Delphine Goossens, responsabile della mostra – sono il frutto del racconto di alcuni studenti del Kansas che hanno volontariamente fornito brevi descrizioni di cosa indossavano quando hanno subito violenza sessuale. Le loro parole – prosegue Goossens, che è anche la project manager per il servizio di prevenzione del Comune di Molenbeek – sono state utilizzate come guida e gli abiti mostrati nell’installazione non sono reali referti, ma una rappresentazione visiva delle loro storie”. Dovrebbe ormai essere palese a tutti che non vi può essere alcuna colpa nel vestiario delle vittime, tuttavia viviamo tempi quantomeno controversi; così alle denunce del movimento di protesta #MeToo a seguito del caso Harvey Weinstein, si è contrapposta nei giorni scorsi una lettera aperta firmata da 100 donne francesi, testimonial d’eccezione Catherine Deneuve, dove si invita a mettere fine alla caccia alle streghe in tema di molestie, a costo di tollerare d’essere importunate.
“L’I N TE N TO d e ll ’ i ns t a ll azione – ha spiegato ancora Goossens – è creare una risposta tangibile a uno dei miti della cultura dello stupro più diffusi. La convinzione che l’abbigliamento possa causare la violenza è estremamente dannosa soprattutto per i sopravvissuti. Questa installazione consente ai partecipanti di vedere se stessi riflettendo non solo sugli abiti, ma anche attraverso le esperienze dei sopravvissuti”.
Bruxelles
La curatrice: “Sfatiamo i luoghi comuni e raccontiamo i sopravvissuti”