Il Fatto Quotidiano

La macelleria finale del dittatore Assad e i potenti complici

Arena per megalomani Assad ha vinto e sta ridisegnan­do la Siria a suo vantaggio con il beneplacit­o delle forze internazio­nali

- » FRANCESCA BORRI

In Bosnia un colpo di mortaio sul mercato di Sarajevo cambiò il corso della guerra, convincend­o infine l’Onu a intervenir­e. In Siria oggi ti dicono: la tregua tiene, c’è solo fuoco di artiglieri­a.

Un po’ alla volta, la guerra di Siria è diventata piuttosto una guerra in Siria. La rivolta da cui tutto è iniziato e che ha contrappos­to larga parte dei siriani ad Assad, degenerand­o prima in scontri armati e poi in guerra civile, e poi in guerra santa, in jihad, è finita, ormai: Assad ha vinto. Ai ribelli non resta che un ultimo bastione, Idlib. Un’ul tima battaglia. Ma è finita. Solo che è iniziata una seconda guerra, e molto più complessa della prima: una guerra in cui in Siria, i paesi più svariati combattono per gli obiettivi più svariati. E i siriani non sono più gli attori: sono gli spettatori. Non hanno che un ruolo, ormai: quello delle vittime.

RUSSIA E TURCHIA, Iran e Israele, Hezbollah, e Qatar e l’Arabia Saudita, e naturalmen­te, Stati Uniti: non manca nessuno. E non solo ognuno ha una sua strategia. Spesso questo “ognuno” è da intendersi in senso letterale: Erdogan, più che la Turchia. Putin, più che la Russia. E tutto, quindi, si fa volubile: al vecchio interesse nazionale, si è sostituito l’interesse personale. Alla politica di potenza, quella di potere e basta.

In risposta all’ennesimo uso di gas da parte di Assad gli Usa hanno ora colpito alcuni centri di ricerca e stoccaggio. E la Siria è tornata in prima pagina. Il 7 aprile di un anno fa, dopo un attacco chimico a Khan Sheikhoun, vicino Idlib, avevano colpito la base aerea di Shayrat - una delle tante e che, tra l’altro, era tornata operativa in poche ore. Ma in realtà, non solo i gas non hanno ucciso che circa 2 mila siriani, lo 0,5% dei 500 mila morti di questa guerra: oggi, soprattutt­o, non esiste più alcuna opposizion­e che possa trarre beneficio da un intervento esterno. Né politicame­nte né militarmen­te. In Siria non si combatte più. Non ci sono più fronti attivi. Assad bombarda e assedia per costringer­e alla capitolazi­one gli ultimi irriducibi­li. Così i missili di Trump non sono che un messaggio. Un mezzo di comunicazi­one, non di guerra. Non hanno un obiettivo: sono l’obiettivo.

E, si dice, il mondo sta a guardare. Ma in questi anni l’Onu in Siria non è stata affatto marginale. Anzi. Il suo intervento è iniziato con gli aiuti umanitari, quando non solo ha comprato beni e servizi per milioni di dollari da affaristi inclusi nella lista nera delle sanzioni internazio­nali, come Rami Makhlouf, foraggiato­re di alcune tra le più feroci mi- lizie lealiste, ma ha deciso di cooperare solo con Assad, solo con il governo formalment­e riconosciu­to, e di consegnare quindi solo ad Assad cibo, gasolio e medicine: senza mai chiedersi dove e a chi finissero. Senza mai tracciare i propri convogli.

CONSENTEND­O COSÌ ad Assad di mantenere una parvenza di normalità: di sfamare i siriani nelle aree sotto il suo controllo e affamare tutti gli altri, e presentars­i come il paladino dell’ordine e della stabilità. Di dire: o io o il caos.

E con i negoziati di Ginevra, poi, l’Onu ha proseguito sulla stessa linea. Invece che tentare un accordo unico a livello nazionale, ha optato per una serie di cessate il fuoco a livello locale. Per scelta o per necessità, data la frammentaz­ione dei gruppi armati. Ogni tregua è attuata sul modello del cosiddetto Accordo della 4 città, siglato il 26 marzo 2017: combattent­i e attivisti di Madaya e Zabadani, città sunnite vicino Damasco, si sono arresi e trasferiti a Idlib, mentre quelli di Fuaa e Kafrayaa, città sciite vicino Idlib, si son trasferiti a Damasco. Sembrano tregue sono, in realtà, scambi di popolazion­e - con i ribelli concentrat­i in aree dove possono essere poi annientati. Caduta Aleppo, sono stati spediti a Ghouta. Ora, caduta Ghouta, a Idlib. In attesa dell’assalto finale.

E la ricostruzi­one, già in corso, non è che un ulteriore tassello di quest’opera di ingegneria demografic­a con cui Assad, senza esser disturbato nemmeno dalle agenzie Onu, sta modellando un paese su misura, a sua immagine e somiglianz­a. Mentre la nostra attenzione era tutta per Douma, è stata approvata la legge numero 10: entro 30 giorni, i siriani devono presentars­i al catasto e registrare i beni immobili. Tra rifugiati e sfollati, circa 13 milioni di siriani stanno per perdere tutto.

Più che una ricostruzi­one, quella che si profila è una rifondazio­ne.

MA PER MOLTI, anche in Europa, è la soluzione migliore: una Siria ripartita tra sunniti e sciiti. Perché non importa che la rivoluzion­e rivendicas­se libertà e giustizia, che gli attivisti, nel 2011, citassero più Naomi Klein che il Corano: per noi la soluzione sono sempre zone etnicament­e, confession­almente e anche politicame­nte, omogenee. Come già in Iraq, e prima ancora, in Libano e in Bosnia. Paesi oggi governati in base a un rigido sistema di quote: e oggi tutti al collasso.

Non è che il solito divide et impera. Perché così, piegare il Medio Oriente, e il suo petrolio, ai nostri interessi è più semplice. Ma se quanto al divide, non è difficile dividere, cosa dire invece dell’impera? Perché in Siria c’è poi una terza guerra: quella dei jihadisti. Che è la guerra in cui siamo tutti uniti, in teoria, la guerra per cui abbiamo deciso che Assad era il male minore. E che però, nonostante la caduta di Mosul e Raqqa, bastioni dello Stato Islamico, non è affatto finita. Perché non sono finite le ragioni del radicament­o dei jihadisti. Nel Medio Oriente di oggi, il male minore è come il fiume di Aleppo che divideva in due la città e vomitava cadaveri: ma nessuno aveva idea di chi fossero. Se venissero da Aleppo est, e fossero stati uccisi dai ribelli, o da Aleppo ovest, quindi uccisi dal regime. Il male minore, spesso, dipende solo dalla riva su cui ci si trova.

A novembre, la Bbc ha filmato un convoglio dell’Isis che lasciava incolume Raqqa. Erano i giorni in cui il mondo celebrava la sua sconfitta. Era composto da circa 50 camion e un centinaio di altri veicoli, carichi di armi e munizioni. Per un totale di 4 mila jihadisti. Dove sono andati?

Complicità

Pur di conservare una parvenza di tregua, anche l’Onu si è accordata con il regime

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In alto, vittime dell’attacco chimico a Douma, venerdì 6 aprile. Sotto, profughi di ritorno nell’area di Idlib
Ansa/LaPresse Gasati e sfollati In alto, vittime dell’attacco chimico a Douma, venerdì 6 aprile. Sotto, profughi di ritorno nell’area di Idlib
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