I nomi non mutano le cose: Savona o no, resta la politica
Cos’è mai un nome? Dispiace scomodare Shakespeare in faccende così poco poetiche, ma il punto è tutto qui. E la risposta è appunto che il problema non sono i nomi dei ministri, o più precisamente ilnome del ministro dell’Economia. Ieri il Colle ha fatto trapelare una nota ufficiosa grazie alla quale abbiamo potuto fare un ripassino di diritto costituzionale: “Il tema all’ordine del giorno non è quello di presunti veti ma, al contrario, quello dell’inammissibilità di diktat nei confronti del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica nell’esercizio delle funzioni che la Costituzione attribuisce a tutti due”. I ministri sono nominati dal Capo dello Stato (nelle cui mani giurano) su proposta del premier, il quale poi va in Parlamento a chiedere la fiducia. Questo accade perché siamo una Repubblica parlamentare, dunque il governo è espressione di una maggioranza parlamentare. Il Presidente Mattarella, nei consueti modi riservati, in questi ottanta giorni ha più volte fatto trapelare la sua contrarietà (condivisibilissima) a un governo tecnico. E un esecutivo politico – con la non trascurabile anomalia di un presidente del Consiglio non politico, non eletto – sta cercando di nascere in un clima di infastidita ostilità. C’è un dettaglio: le forze che hanno siglato l’accordo di governo ( impropriamente chiamato contratto, ma vabbè) esprimono una visione in netta discontinuità con il passato. Non si può immaginare di imporre o forzare un indirizzo diverso: l’asse politico si è già spostato con il voto del 4 marzo. E allora è inutile nascondersi dietro il balletto dei veti o dei diktat, come se in passato i presidenti del Consiglio incaricati non avessero proposto ministri concordati con le forze di maggioranza.
IL PRESIDENTE MATTARELLA si è trovato a gestire una situazione complessa – anche grazie a una pessima legge elettorale – in cui ha dovuto fare i conti con una realtà molto distante dai desiderata dell’establishment, lontana anni luce dal recente passato istituzionale. Il risultato del voto ha generato una sorpresa incomprensibile nel sistema dell’informazione, che per mesi si è cullato nell’idea che il +Europa di Emma Bonino avrebbe conquistato gli elettori. I quali invece hanno dato un’indicazione esattamente, nettamente, contraria. Cosa che ha prodotto gravi maldipancia, e in questi giorni fiumi di inchiostro sulla formulazione inesatta di un curriculum (il tutto dopo anni di silenzio su tesi di dottorato copiate e un curriculum non abbellito, ma falsificato da parte di una ministra dell’Istruzione che in un discorso pubblico ha pure fatto incontrare Napoleone e Vittorio Emanuele III, nati a un secolo di distanza). Qui però è già successo tutto e si vorrebbe far finta di niente: la realtà non si può addomesticare, i numeri in Parlamento hanno più forza del supposto buon senso invocato da più parti. Cercando di accontentare cancellerie e mercati si rischia di andare contro il popolo. Che non è il suffisso di un termine spregiativo, populismo, usato contro chiunque metta in dubbio lo status quo, ma il soggetto titolare della sovranità. Vero che la politica – dice Paul Valéry – è l’arte di impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda, ma la democrazia è quel sistema per cui ogni tanto i cittadini sono chiamati a esprimere il loro parere su come vogliono essere governati. E il dissenso rispetto al sistema di potere che abbiamo avuto sino ad ora si è espresso nel più giusto dei modi: attraverso il voto. Se non conta più, si dica chiaramente quel che per ora trapela solo velatamente dai discorsi di rabbiosi editorialisti. Pensare che eliminando Paolo Savona cambi qualcosa, è un’illusione: quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome?