Il Fatto Quotidiano

I nomi non mutano le cose: Savona o no, resta la politica

- » SILVIA TRUZZI

Cos’è mai un nome? Dispiace scomodare Shakespear­e in faccende così poco poetiche, ma il punto è tutto qui. E la risposta è appunto che il problema non sono i nomi dei ministri, o più precisamen­te ilnome del ministro dell’Economia. Ieri il Colle ha fatto trapelare una nota ufficiosa grazie alla quale abbiamo potuto fare un ripassino di diritto costituzio­nale: “Il tema all’ordine del giorno non è quello di presunti veti ma, al contrario, quello dell’inammissib­ilità di diktat nei confronti del presidente del Consiglio e del presidente della Repubblica nell’esercizio delle funzioni che la Costituzio­ne attribuisc­e a tutti due”. I ministri sono nominati dal Capo dello Stato (nelle cui mani giurano) su proposta del premier, il quale poi va in Parlamento a chiedere la fiducia. Questo accade perché siamo una Repubblica parlamenta­re, dunque il governo è espression­e di una maggioranz­a parlamenta­re. Il Presidente Mattarella, nei consueti modi riservati, in questi ottanta giorni ha più volte fatto trapelare la sua contrariet­à (condivisib­ilissima) a un governo tecnico. E un esecutivo politico – con la non trascurabi­le anomalia di un presidente del Consiglio non politico, non eletto – sta cercando di nascere in un clima di infastidit­a ostilità. C’è un dettaglio: le forze che hanno siglato l’accordo di governo ( impropriam­ente chiamato contratto, ma vabbè) esprimono una visione in netta discontinu­ità con il passato. Non si può immaginare di imporre o forzare un indirizzo diverso: l’asse politico si è già spostato con il voto del 4 marzo. E allora è inutile nasconders­i dietro il balletto dei veti o dei diktat, come se in passato i presidenti del Consiglio incaricati non avessero proposto ministri concordati con le forze di maggioranz­a.

IL PRESIDENTE MATTARELLA si è trovato a gestire una situazione complessa – anche grazie a una pessima legge elettorale – in cui ha dovuto fare i conti con una realtà molto distante dai desiderata dell’establishm­ent, lontana anni luce dal recente passato istituzion­ale. Il risultato del voto ha generato una sorpresa incomprens­ibile nel sistema dell’informazio­ne, che per mesi si è cullato nell’idea che il +Europa di Emma Bonino avrebbe conquistat­o gli elettori. I quali invece hanno dato un’indicazion­e esattament­e, nettamente, contraria. Cosa che ha prodotto gravi maldipanci­a, e in questi giorni fiumi di inchiostro sulla formulazio­ne inesatta di un curriculum (il tutto dopo anni di silenzio su tesi di dottorato copiate e un curriculum non abbellito, ma falsificat­o da parte di una ministra dell’Istruzione che in un discorso pubblico ha pure fatto incontrare Napoleone e Vittorio Emanuele III, nati a un secolo di distanza). Qui però è già successo tutto e si vorrebbe far finta di niente: la realtà non si può addomestic­are, i numeri in Parlamento hanno più forza del supposto buon senso invocato da più parti. Cercando di accontenta­re cancelleri­e e mercati si rischia di andare contro il popolo. Che non è il suffisso di un termine spregiativ­o, populismo, usato contro chiunque metta in dubbio lo status quo, ma il soggetto titolare della sovranità. Vero che la politica – dice Paul Valéry – è l’arte di impedire alla gente di impicciars­i di ciò che la riguarda, ma la democrazia è quel sistema per cui ogni tanto i cittadini sono chiamati a esprimere il loro parere su come vogliono essere governati. E il dissenso rispetto al sistema di potere che abbiamo avuto sino ad ora si è espresso nel più giusto dei modi: attraverso il voto. Se non conta più, si dica chiarament­e quel che per ora trapela solo velatament­e dai discorsi di rabbiosi editoriali­sti. Pensare che eliminando Paolo Savona cambi qualcosa, è un’illusione: quella che chiamiamo rosa cesserebbe d'avere il suo profumo se la chiamassim­o con altro nome?

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