Puzza di genio
L’identità sociale del mio corpo, quel che del mio corpo è immediatamente accessibile alla percezione di chiunque mi si avvicini, è il mio odore. In coda alla cassa di un supermercato, nel vagone affollato di una metropolitana, nella sala di un cinema o sugli spalti di uno stadio gli altri hanno di me una visione parziale, nascosta da un complicato assortimento di vestiti; di toccarmi o assaggiarmi non hanno né l’opportunità né l’inclinazione e i suoni che emetto possono dare loro un’idea, al massimo, dello stato delle mie corde vocali, o forse della mia mente. Il mio odore, invece, parla delle mie ascelle e dei miei piedi, racconta che cosa ho mangiato e bevuto, chiarisce se fumo ed eventualmente che cosa fumo.
Se l’accesso a un corpo stabilisce con esso un rapporto in certa misura intimo, il mio odore mi apre a condizioni di improvvisa e talvolta imbarazzante intimità con perfetti sconosciuti. Non ci si stupisce allora di quanti si lavano i denti dopo ogni pasto, o del 94% di donne inglesi (e 87% di uomini inglesi) che, ci informa John Sutherland in
Orwell’s Nose, usano un deodorante, o del fatto che, in inglese, l’espressione « body
odor » (inventata nel 1919 dalla ditta Odorono: Odor? Oh No!) significa invariabilmente cattivo odore. Per coprire il quale si è attivata nell’ultimo secolo un’industria che fattura a livello globale 18 miliardi di dollari.
George Orwell (al secolo Eric Arthur Blair) aveva un pessimo odore. In parte era dovuto a sue scelte idiosincratiche: ritirarsi in una casa di campagna senza luce elettrica o acqua corrente e con il cesso in cortile per allevare capre e galline, oppure vivere come un barbone per capire i poveri «dall’interno» (a imitazione dell’ammirato antropologo Bronislaw Malinowski, che aveva convissuto con gli indigeni delle Isole Trobriand). In parte erano responsabili le sue condizioni di salute: soffriva di tubercolosi e ne sarebbe morto, a 46 anni, nel 1950. (Il ritornello di una delle più belle canzoni di Van Morrison ripete in modo ipnotico «I can almost smell you T.B.
sheets ».) E in parte erano le sigarette che fumava in continuazione, anche mentre lo curavano in ospedale (ma il critico William Empson sosteneva che l’odore pestifero di fumo che emanava era comunque preferibile al suo odore personale). Sta di fatto che, per quanto cercasse, e sovente ottenesse, i favori di quasi tutte le donne che incontrava, l’intimità con lui di rado persisteva dopo una prima esperienza, e sembra proprio che l’odore ci avesse a che fare. (Non era il solo genio letterario, peraltro, a soffrire di questo inconveniente: quando un’amica chiese a Fanny Targioni Tozzetti perché avesse rifiutato l’amore di Leopardi, lei rispose «Mia cara, puzzava».)
John Sutherland è Professore Emerito allo University College di Londra. Autore di una trentina di libri e firma del quotidiano progressista The Guardian, è specialista di letteratura vittoriana e del ventesimo secolo, ed è un patito di Orwell, che ha continuato a rileggere da quando lo scoprì nel 1954, dopo aver seguito una versione televisiva di 1984. L’ultima rilettura la cominciò tre anni fa, in coincidenza con la sua totale perdita dell’olfatto (in seguito a un grave caso di allergia stagionale), e ne è nato un libro che lui stesso definisce «autoindulgente» e che certo rivela un uomo di età avanzata (è nato nel 1938) e di indubbia autorevolezza il quale stavolta ha deciso di divertirsi, ma che proprio per questo risulta spigliato, allegro, eccentrico e godibilissimo. La sua struttura è insolita: una prefazione di quaranta pagine, un singolo capitolo di circa duecento e tre brevi appendici.
Il suo tema non lo è da meno: una biografia letteraria di Orwell concentrata sul ruolo dell’olfatto nelle sue opere. Stando ai libri che ci ha lasciato, infatti, quest’uomo dal cattivo odore (ma il nostro odore, per ciascuno di noi, non è mai davvero cattivo) aveva una sensibilità estremamente raffinata per gli odori, che compaiono con regolare frequenza (e in modo molto preciso e articolato) nelle sue descrizioni di un ambiente, di un personaggio, di un evento. Si va così dagli odori delle strade di Parigi a quelli del bagno di un collegio, dal profumo delicato di una donna in un taxi ai ruvidi aromi di un bar, dal tanfo della guerra (Orwell partecipò alla lotta contro i franchisti in Spagna) a quello di chi è troppo povero per potersi lavare o cambiare d’abito, e porta inciso nella sua maschera sociale il segno della sua inferiorità.
Si trovano analogie e modelli in Joyce e Swift, e si sorride leggendo del primo sedotto dai peti della sua Nora e di Gulliver che invece, tornato alla «civiltà», non riesce a tollerare l’odore di moglie e figli. Scoprendo attraverso tanti inattesi dettagli un senso (fisico) spesso esiliato dal nostro contatto con i libri, che sono goduti con la vista e magari con l’udito (la poesia si deve leggere ad alta voce!) ma di solito non con il naso, questo indiscreto, irriverente, importuno veicolo della nostra più segreta natura.
John Sutherland, Orwell’s Nose: A Pathological Biography, Reaktion Books, Londra, pagg. 256, £ 15