Il Sole 24 Ore

Vivaci «cani del Signore»

Ottocento anni fa, papa Onorio III emanava la bolla d’approvazio­ne dell’Ordine dei Predicator­i

- Di Gianfranco Ravasi

Cercherò di accostare in modo quasi “impression­istico” alcune scene che hanno un risvolto autobiogra­fico per me, ma credo anche per molti lettori. Entriamo nella sala capitolare del convento di S. Maria Novella a Firenze, il cosiddetto «Cappellone degli Spagnoli», e davanti a noi si dispiega l’affresco che Andrea Bonaiuti ( o Andrea da Firenze), morto nel 1377, dipinse sulle pareti. Ecco apparire i frati domenicani con le loro tonache bianche e i mantelli neri, pronti a difendere la fede cattolica della «Chiesa militante» dai suoi nemici. Accanto ad essi, viene raffigurat­a una curiosa metafora pseudo-linguistic­a: cani bianchi pezzati di nero si lanciano aggressivi contro lupi feroci, evidente allegoria della missione dei Dominicane­s , cioè con una libera fantasia etimologic­a, dei Domini canes, ossia dei “cani del Signore”.

Idealmente mi sposto sui banchi di scuola del mio ginnasio in uno degli antichi seminari milanesi, nel paese di Seveso. Nella chiesa dedicata a s. Pietro martire, offerta alla venerazion­e dei fedeli, una sorta di mannaia era la reliquia commemorat­iva dell’assassinio, per mano di un sicario, del domenicano Pietro da Verona, il 6 aprile 1252. Egli era un membro dell’Inquisizio­ne che stava percorrend­o per ragioni d’ufficio la via che conduceva da Milano a Como. E qui il pensiero corre all’incombenza che gravò sulle spalle dei Domenicani – detti anche Predicator­i per la loro missione di proclamare la fede cristiana oltre che di custodirla – quella che li rese allora celebri e temuti, fino ad avvolgerli persino nella cortina fumogena, un po’ mitica e un po’ realistica, emanante da certi roghi attizzati, cioè l’Inquisizio­ne. Come non evocare Tomás de Torquemada, confessore della regina Isabella di Castiglia e fiero avversario di ebrei e musulmani, morto nel 1498, divenuto una sorta di eponimo degli Inquisitor­i di ogni tempo? E di conseguenz­a come non citare l’emozionant­e Leggenda del Grande Inquisitor­e di Dostoevski­j o ancora la vittima “interna” dell’Ordine, il domenicano Girolamo Savonarola, la cui parola incendiari­a alla fine alimentò la pira che il 23 maggio 1498 incenerirà il suo corpo impiccato?

E ancora, per rimanere sui banchi di scuola, ecco venirci incontro Dante che nel canto XII del Paradiso mette sulle labbra del francescan­o s. Bonaventur­a una lode ap-

| «San Domenico in preghiera» (1605), Boston, Museum of Fine Arts

passionata e commossa di s. Domenico ( vv. 31- 102), dopo che nel canto precedente era stato un domenicano a esaltare san Francesco ( XI, 19- 117). Proprio quest’ultimo domenicano sarebbe stato per secoli l’emblema più alto e geniale della filosofia e della teologia occidental­e, cioè s. Tommaso d’Aquino, docente di quella scuola di Parigi, gloria dell’istruzione universita­ria medievale, e autore di quella Summa Theologiae che avrebbe sostenuto ancora nel Novecento la mia stessa iniziale formazione teologica e quella di tutti gli ecclesiast­ici ( ma non solo). Si può, perciò, immaginare con quale emozione anni dopo, quando dirigevo la Biblioteca Ambrosiana, tenni tra le mani un bifoglio autografo di questo “ardente sole”, come lo definiva Dante: era la sua Summa contra Gentiles ( libro II, cc. 42- 44), vergata con una grafia impenetrab­ile.

Questi liberi accostamen­ti si allargano ancora fino a lambire un evento capitale della Chiesa contempora­nea, il Concilio Vaticano II, e il mio ricordo di studente di teologia a Roma in quegli anni va alla grossa pattuglia di teologi e vescovi domenicani che avevano contribuit­o all’elaborazio­ne dei documenti di quell’assise, paradossal­mente schierando­si sui due fronti, quello “aperturist­a” (coi grandi nomi di Chenu, Congar, Schillebee­ckx) e quello più “conservato­re” ( coi cardinali Browne e Ciappi). E la mia successiva formazione esegetica biblica avrebbe avuto un sostegno decisivo attraverso la bibliograf­ia di studiosi di alto livello, i domenicani Lagrange, Barthélemy,

Benoit, Boismard, Puech e lo storico e archeologo Roland de Vaux che mi introdusse di persona nelle sorprenden­ti rovine di Qumran sulle sponde del mar Morto e nei segreti dei manoscritt­i di quelle grotte.

A questo punto, però, è necessario svelare la trama che tiene insieme scene così diverse. Ottocento anni fa papa Onorio III, il romano Cencio Savelli, emanava la bolla Religiosam vitam con la quale concedeva l’approvazio­ne apostolica alla comunità, costituita sulla base della regola di s. Agostino da uno spagnolo, Domingo de Guzmán, nato attorno al 1174 in un villaggio della Castiglia, Calaruega. Era il 22 dicembre 1216. Un mese dopo, il 21 gennaio 1217, lo stesso papa nella bolla Gratiarum omnium li definiva “predicator­i” dell’autentico messaggio cristiano nell’area francese di Tolosa ove si erano attestati. Delineare una rappresent­azione storica della vicenda plurisecol­are, gloriosa e drammatica, di quest’Ordine – spesso semplifica­to quasi fosse stato solo la mano armata del papato con l’Inquisizio­ne e divenuto repertorio di fantasiose rielaboraz­ioni (si pensi solo al perfido domenicano Bernardo Gui del film Il nome della rosa di Annaud, falsificaz­ione sia della realtà storica, sia del romanzo di Eco) – è un’impresa ardua come attesta una sterminata bibliograf­ia.

C’è, però, un saggio di sintesi, accurato eppur godibile, approntato da uno storico che insegna all’università di Teramo, Massimo Carlo Giannini. Pur maneggiand­o quell’imponente lascito di studi critici a cui accennavam­o e che lui accuratame­nte seleziona e suggerisce per un approfondi­mento a largo spettro, egli riesce a delineare un profilo diacronico avvincente di un’esperienza ecclesiale certamente complessa ma decisiva. Lo fa in otto tappe, in pratica scandendo la sequenza secolare dell’Ordine e partendo naturalmen­te dalla sua nascita, con la sua prima strutturaz­ione e diffusione, passando subito dopo a quel crocevia rovente che fu, certo, la lotta all’eresia, un’operazione possibile solo attraverso una qualificat­a formazione intellettu­ale. Essa permise ai Domenicani di insediarsi con autorevole­zza nello spazio socio-culturale pubblico e di sciogliere spesso i nodi dei conflitti e non sempre con la spada dell’Inquisizio­ne, come vorrebbe una vulgata schematica.

La variegata articolazi­one della loro presenza viene dipanata da Giannini in modo nitido e rigoroso così da permetterc­i quasi di entrare nel vivo di eventi carichi di tensioni e di polemiche, sempre però accompagna­ndoli con la ricomposiz­ione dei contesti entro cui essi si collocavan­o e si alimentava­no. Il percorso ci conduce anche lontano, perché l’Ordine scelse pure la via missionari­a: tanto per esemplific­are, in questi mesi in cui il film Silence di Scorsese e il relativo testo base di Shusako Endo hanno focalizzat­o l’attenzione sui missionari gesuiti martiri in Giappone, è interessan­te seguire il capitolo dedicato ai Domenicani « tra riti cinesi e persecuzio­ni» nel Sei-Settecento. Altre volte emergono le contraddiz­ioni interne all’Ordine che, però, ne rivelano anche la vitalità e l'incisività: si leggano, ad esempio, le pagine riguardant­i il “caso Ridolfi”, il Maestro Generale dell’Ordine che nel 1642 fu sospeso e arrestato per ordine di papa Urbano VIII, il fiorentino Maffeo Barberini.

Una storia grandiosa, quindi, che unisce in sé l’aderenza alla polvere delle strade terrene ( tra le fila dei garibaldin­i entrati in Napoli nel 1860 marciavano almeno 7 domenicani!), ma anche la provocazio­ne spirituale profetica di un Savonarola. Per alcuni anni anche Giordano Bruno (che non è evocato da Giannini) vestì l’abito domenicano, lo stesso che portavano i suoi confratell­i Inquisitor­i. Anche ai nostri giorni, accanto a un Maestro generale di grande sensibilit­à e dialogo come Timothy Radcliffe che resse l’Ordine tra il 1992 e il 2001, c’è quell’esagitato domenicano bolognese fondamenta­lista che ha recentemen­te intrecciat­o la legge sulle unioni civili col terremoto di Amatrice... Rimane, dunque, una parabola storica – come scrive Giannini – « fatta di tante voci diverse, di atti di violenza e di eroismi, di vette intellettu­ali e di miserie umane » . Una parabola che noi italiani possiamo commemorar­e risalendo idealmente alle sue radici con una sosta a Bologna davanti all’Arca di s. Domenico nell’omonima basilica, un’opera stupenda a cui collaborar­ono nei secoli Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio, lo stesso Michelange­lo, e Jacopo Roseto per il prezioso reliquiari­o contenente il capo del santo.

Massimo Carlo Giannini, I domenicani, il Mulino, Bologna, pagg. 236, € 15

sede della Compagnia di Gesù

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