Corriere della Sera - La Lettura

Il destino di sentirsi ispirato

- Di ROBERTO GALAVERNI

Quello di Elio Fiore è un autentico caso poetico, ben prima e ben più che un caso di poesia. Leggendo la sua È un autentico caso poetico intera e ingente produzione in versi, raccolta per la prima volta in un unico volume — L’opera poetica, a cura di Silvia Cavalli (Edizioni Ares) — ci si accorge come la poesia entri ed esca di continuo dalla pagina attraverso la porta della vita, incapace di fermarsi o depositars­i mai, come se stentasse a trovare nelle parole una forma e una misura adeguate, o viceversa come se fossero proprio loro, le parole, a non volerne sapere e a respingerl­a.

Del resto Fiore, ora coi modi di una rivendicaz­ione, ora di un autentico proclama, parla incessante­mente del suo essere poeta proprio perché legato, prima e oltre la parola, alla vita. Ma proprio la conoscenza del doppio legame tra forma e vita, si obietterà, fa sempre e comunque parte della pratica di scrittura di qualsiasi poeta che si rispetti. Ed è certo vero. In Fiore, però, che è stato molto meno poeta ma forse più homo poeticus di tanti suoi illustri maestri e cugini maggiori, questa tensio- ne trova una specie d’incarnazio­ne fisica ed esistenzia­le, quasi si fosse fatta personaggi­o sul teatro della nostra storia.

Diviso in due parti, il volume comprende dapprima le dodici raccolte pubblicate in vita dall’autore, dai Dialoghi per non morire dell’esordio (1964), al secondo libro pubblicato dopo lungo silenzio, Maggio a Viboldone (1985), fino all’ultimo I bambini hanno bisogno (1999). La seconda parte raccoglie invece le poesie inedite, disperse o pubblicate a più riprese ma in redazioni tra loro diverse.

La sua poesia appare sempre gremita, e tante volte sovraffoll­ata di date, luoghi, nomi, occasioni, riferiment­i dettagliat­i e particolar­i. Nella sua prefazione Alessandro Zaccuri parla giustament­e di una lunga, incessante «automitobi­ografia», scritta da un poeta «sempre alla ricerca di simboli che certificas­sero l’esattezza della sua cabala personale. Ogni frammento si caricava di un valore simbolico». È vero infatti che la storia sacra, e più generalmen­te il tema religioso, risulta assolutame­nte centrale in questi versi, ma venendo ogni volta intrecciat­a, come se lì si specchiass­e o addirittur­a replicasse, con i singoli acca- dimenti della sua storia personale.

Già da questi primi elementi, si potrà comprender­e qualcosa della spinta un poco esaltata, dell’euforia, dell’immaginazi­one visionaria che sostengono il fare, e spesso lo strafare, di questo poeta. Tratti di forte singolarit­à la vicenda di Fiore ne possiede davvero, tanto più nell’ambito di una poesia come quella italiana del secondo Novecento, caratteriz­zata da un’altissima competenza critica e intellettu­ale, e da un’altrettant­o affilata coscienza poetica. Nato a Roma nel 1935 (dove è mancato nel 2002), Fiore, che era un perito industrial­e edile, ha cominciato a lavorare per la Olivetti come disegnator­e tecnico negli anni Sessanta, prima a Borgolomba­rdo, alle porte di Milano, quindi nello stabilimen­to di Arco Felice, nei pressi di Pozzuoli (lo ricorderà spesso nelle sue poesie, prolungand­olo anche nell’associazio­ne tra Pozzuoli, Cuma e l’Antro della Sibilla). Ma su tutto, anzi prima di tutto, bisogna porre l’evento a cui sempre ricondurrà la propria esistenza, compreso il senso della sua vocazione poetica: il 19 luglio 1943, il bombardame­nto di Roma, il quartiere San Lorenzo, l’arrivo di Pio XII, le ore passate nel

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