Corriere della Sera - La Lettura
Il destino di sentirsi ispirato
Quello di Elio Fiore è un autentico caso poetico, ben prima e ben più che un caso di poesia. Leggendo la sua È un autentico caso poetico intera e ingente produzione in versi, raccolta per la prima volta in un unico volume — L’opera poetica, a cura di Silvia Cavalli (Edizioni Ares) — ci si accorge come la poesia entri ed esca di continuo dalla pagina attraverso la porta della vita, incapace di fermarsi o depositarsi mai, come se stentasse a trovare nelle parole una forma e una misura adeguate, o viceversa come se fossero proprio loro, le parole, a non volerne sapere e a respingerla.
Del resto Fiore, ora coi modi di una rivendicazione, ora di un autentico proclama, parla incessantemente del suo essere poeta proprio perché legato, prima e oltre la parola, alla vita. Ma proprio la conoscenza del doppio legame tra forma e vita, si obietterà, fa sempre e comunque parte della pratica di scrittura di qualsiasi poeta che si rispetti. Ed è certo vero. In Fiore, però, che è stato molto meno poeta ma forse più homo poeticus di tanti suoi illustri maestri e cugini maggiori, questa tensio- ne trova una specie d’incarnazione fisica ed esistenziale, quasi si fosse fatta personaggio sul teatro della nostra storia.
Diviso in due parti, il volume comprende dapprima le dodici raccolte pubblicate in vita dall’autore, dai Dialoghi per non morire dell’esordio (1964), al secondo libro pubblicato dopo lungo silenzio, Maggio a Viboldone (1985), fino all’ultimo I bambini hanno bisogno (1999). La seconda parte raccoglie invece le poesie inedite, disperse o pubblicate a più riprese ma in redazioni tra loro diverse.
La sua poesia appare sempre gremita, e tante volte sovraffollata di date, luoghi, nomi, occasioni, riferimenti dettagliati e particolari. Nella sua prefazione Alessandro Zaccuri parla giustamente di una lunga, incessante «automitobiografia», scritta da un poeta «sempre alla ricerca di simboli che certificassero l’esattezza della sua cabala personale. Ogni frammento si caricava di un valore simbolico». È vero infatti che la storia sacra, e più generalmente il tema religioso, risulta assolutamente centrale in questi versi, ma venendo ogni volta intrecciata, come se lì si specchiasse o addirittura replicasse, con i singoli acca- dimenti della sua storia personale.
Già da questi primi elementi, si potrà comprendere qualcosa della spinta un poco esaltata, dell’euforia, dell’immaginazione visionaria che sostengono il fare, e spesso lo strafare, di questo poeta. Tratti di forte singolarità la vicenda di Fiore ne possiede davvero, tanto più nell’ambito di una poesia come quella italiana del secondo Novecento, caratterizzata da un’altissima competenza critica e intellettuale, e da un’altrettanto affilata coscienza poetica. Nato a Roma nel 1935 (dove è mancato nel 2002), Fiore, che era un perito industriale edile, ha cominciato a lavorare per la Olivetti come disegnatore tecnico negli anni Sessanta, prima a Borgolombardo, alle porte di Milano, quindi nello stabilimento di Arco Felice, nei pressi di Pozzuoli (lo ricorderà spesso nelle sue poesie, prolungandolo anche nell’associazione tra Pozzuoli, Cuma e l’Antro della Sibilla). Ma su tutto, anzi prima di tutto, bisogna porre l’evento a cui sempre ricondurrà la propria esistenza, compreso il senso della sua vocazione poetica: il 19 luglio 1943, il bombardamento di Roma, il quartiere San Lorenzo, l’arrivo di Pio XII, le ore passate nel